UNA GIRAFFA NELL'ARMADIO
Guida poetica all'Immaginazione cap. II
Vi auguro di essere follemente amata
Nel 1936, a cavallo tra settembre e ottobre, André Breton scrive una lunga lettera per la figlia Aube, nata solo poche settimane prima, il 20 dicembre 1935, una lettera che la piccola avrebbe dovuto leggere solo dopo nel 1952, al compimento dei 16 anni.
"Mia cara piccola bimba, che non avete che otto mesi, che sorridete sempre, che siete fatta proprio come il corallo e la perla..."
In queste righe, in cui l'autore si rivolge con un tenero e cortese "voi" alla donna che la sua bambina diventerà, troviamo un testo altamente poetico, più che epistolare, in cui la guida del Surrealismo traccia un punto sulle sue scelte, soprattutto quella della paternità, e consegna alla figlia il suo messaggio d’amore, potente e limpido. È qui che emerge un Breton intimo, commosso: la piccola Aube, "potenza perpetua della donna, la sola davanti a cui io mi sia mai inchinato", diventa il punto di unione tra necessità naturale e necessità umana, tra realtà e sogno e la sua manina fa scaturire per la prima volta la promessa del "sempre".
"Forse è stata una terribile imprudenza ma è stata proprio quest’imprudenza a rivelarsi la gemma più bella dello scrigno"
Con questo testo, un inno all'amore assoluto, libero e disinteressato, come unico motore del mondo, Breton deciderà di concludere l’Amour fou, uno dei suoi romanzi più suggestivi, pubblicato nel 1937.
"Non nego che l’amore debba necessariamente avere a che fare con la vita. Dico che questo deve vincere e per questo deve essere innalzato a una tale coscienza poetica di se stesso che tutto ciò che inevitabilmente incontri di ostile si sciolga al focolare della sua gloria"
Così posso non pensare alla mia piccola "Crincipessa del Pongo"... ma, per capire meglio, leggete queste righe incantevoli...
Cara Scricciolina di Noiattolo (1),
nella bella primavera del 1952 avrete appena raggiunto i 16 anni e forse sarete tentata di dischiudere questo libro di cui, amo pensare, il titolo vi sarà eufonicamente portato dal vento che accarezza i biancospini… Tutti i sogni, tutte le speranze, tutte le illusioni danzeranno notte e giorno, spero, alla luce dei vostri riccioli e io, che non desidererei esserci che per vedervi, non sarò senza dubbio più qui. I cavalieri misteriosi e splendidi passeranno a briglie sciolte, al crepuscolo, lungo i ruscelli cangianti. Sotto dei leggeri veli verde acqua, con un passo di sonnambula una ragazza scivolerà sotto le alti volte, dove luccicherà solo una lampada votiva. Ma gli spiriti dei giunchi, ma i microscopici gatti che fanno finta di dormire negli anelli, ma l’elegante pistola giocattolo con incisa la parola “ballo” baderanno a non farvi vivere queste scene troppo tragicamente. Qualunque sia la parte mai abbastanza bella, o tutt’altro, che vi sarà stata data, io no, non posso saperlo, voi ne godrete a viverla, ad attendere tutto dall’amore. Qualunque cosa accada da oggi a quando avrete conoscenza di questa lettera (pare che l’insupponibile sia proprio ciò che è destinato a divenire realtà) lasciatemi pensare che allora sarete pronta a incarnare questa potenza perpetua della donna, la sola davanti a cui io mi sia mai inchinato. Che voi chiudiate un leggio su un mondo blu corvino di ogni fantasia o che vi delineiate, al di là di un bouquet della vostra camicetta, come un profilo solare sul muro d’una fabbrica (sono lontano dall’essere fissato sul vostro futuro) lasciatemi credere che queste parole, “l’amore folle”, saranno un giorno le sole in relazione con la vostra vertigine.
Queste non manterranno la loro promessa poiché non faranno altro che illuminarvi il mistero della vostra nascita. Anni or sono avevo pensato che la follia peggiore fosse quella di dare la vita. In ogni caso io non lo avevo perdonato a coloro che me l’avevano data. Può accadere che anche voi alcuni giorni non me lo perdonerete. È questo il motivo per il quale ho scelto di guardarvi a 16 anni, nel momento in cui voi non potete più avercela con me. Che dico, di guardarvi, no, di cercare di vedervi attraverso i vostri stessi occhi, di guardarmi attraverso i vostri occhi. Mia cara piccola bimba, che non avete che otto mesi, che sorridete sempre, che siete fatta proprio come il corallo e la perla, in quel momento saprete che bisogna rigorosamente escludere ogni concetto di caso dalla vostra venuta, che questa è proprio accaduta nell’ora stessa in cui doveva accadere, né troppo presto né troppo tardi, e che al di sopra della vostra culla di vimini non c’era alcuna ombra ad attendervi. Persino la grande miseria che c’era stata e che resta la mia per qualche giorno si appacificò. D’altronde io non mi ero mica scagliato contro questa miseria: accettavo di dover pagare il riscatto della mia non-schiavitù a vita, di assolvere il diritto che una volta per tutte mi ero assegnato di non esprimere altre idee che le mie. Non eravamo poi numerosi… Lei passava da lontano, tanto impreziosita, quasi giustificata, un po’ come in quello che è stato chiamato il periodo blu per un pittore che fu tra i vostri primissimi amici (2). Lei appariva come la conseguenza più o meno inevitabile del mio rifiuto di passare per dove passavano quasi tutti gli altri, che fossero in un campo o in un altro. Sappiate che questa miseria, che voi abbiate avuto o no il tempo di provarne orrore, non era che il rovescio della miracolosa medaglia della vostra esistenza: senza di quella la Notte del Girasole sarebbe stata meno scintillante.
Meno scintillante poiché allora l’amore non avrebbe dovuto sfidare tutto quel che ha sfidato, poiché, per trionfare, non avrebbe dovuto contare in tutto e per tutto che su se stesso. Forse è stata una terribile imprudenza ma è stata proprio quest’imprudenza a rivelarsi la gemma più bella dello scrigno. Al di là di questa imprudenza non restava infatti che compierne una ancora più grande: quella di farvi nascere, quella di cui voi siete il soffio profumato. Bisognava che almeno dall’una all’altra fosse tesa una corda magica, tesa fino al punto di rottura al di sopra del precipizio in modo che la bellezza andasse a cogliere voi come un impossibile fiore celeste, aiutandosi solamente col suo bilanciere. Spero che un giorno quantomeno vi piaccia pensare che questo fiore siete voi, che siete nata senza alcun contatto col suolo infelicemente fertile chiamato convenzionalmente “gli interessi umani”. Voi provenite dall’unico luccichio di ciò che fu la tarda realizzazione della poesia alla quale mi ero votato nella mia giovinezza, della poesia che ho continuato a servire, in spregio di tutto ciò che non lo era. Voi vi siete trovata qui come per incanto e semmai ritrovate un velo di tristezza in queste parole che per la prima volta rivolgo solo a voi, sappiate che questo incantesimo continua e continuerà a essere un tutt’uno con voi, che supererà necessariamente tutte le lacerazioni del mio cuore. Sempre e a lungo, le due parolone nemiche che si affrontano da quando si tratta di amore, non si sono mai scambiati sopra di me colpi di spada tanto accecanti quanto oggi, in un cielo tutto intero come i vostri occhi il cui bianco è ancora così azzurro. Di queste parole, quella che porta i miei colori, anche se la sua stella si affievolisce in quest’ora, è sempre. Sempre, come nei giuramenti che esigono le ragazze. Sempre, come sulla sabbia bianca del tempo e attraverso la grazia di questo strumento che serve a contarla ma solamente fino a qui vi affascina e vi affama, ridotto a un filo di latte senza fine che cola da un seno di vetro. Verso tutto, contro tutto avrò garantito che questo sempre è la chiave universale. Quel che ho amato, che io l’abbia protetto o meno, io lo amerò sempre. Siccome anche voi siete chiamata a soffrire, alla conclusione di questo libro vorrei spiegarvi meglio. Ho parlato di un certo “punto sublime” nella montagna. Non è mai stata una questione di fermarmi in modo definitivo a quel punto. D’altra parte quello avrebbe smesso di essere sublime e io avrei smesso di essere un uomo. Siccome era impossibile poter ragionevolmente fissarmici, non me ne sono nemmeno mai allontanato fino a perderlo di vista, fino a non poterlo più mostrare. Avevo scelto di essere questa guida, di conseguenza ero tenuto a mostrarmi degno della potenza che, in direzione dell’amore eterno, mi aveva fatto vedere e mi aveva concesso il privilegio ancor più raro di far vedere. Non ho mai smesso di esserne degno, non ho mai smesso di far sì che la carne dell’essere che amo e la neve delle vette al sorgere del sole non fossero che una cosa sola. Dell’amore non ho voluto conoscere che le ore del trionfo, di cui chiudo qui la collana su di voi. Inoltre sono certo che comprenderete quale fiacchezza mi leghi alla perla nera, l’ultima, quale suprema speranza di una cospirazione ho messo in essa. Non nego che l’amore debba necessariamente avere a che fare con la vita. Dico che questo deve vincere e per questo deve essere innalzato a una tale coscienza poetica di se stesso che tutto ciò che inevitabilmente incontri di ostile si sciolga al focolare della sua gloria.
Quantomeno questa sarà stata in eterno la mia grande speranza, alla quale non toglie nulla l’incapacità in cui sono incappato talvolta di mostrarmi alla sua altezza. Se è mai entrato in composizione con altre speranze, sono sicuro che ciò non vi tocca meno da vicino. Come ho voluto che la vostra esistenza conoscesse questa ragion d’essere che avevo chiesto a ciò che era per me, con tutta la forza del termine, la bellezza, con tutta la forza del termine, l’amore (il nome che vi pongo in cima all’inizio di questa lettere, sotto la sua forma anagrammatica, non mi rende solamente conto in modo affascinante del vostro aspetto attuale poiché, molto tempo dopo averlo inventato per voi, mi sono accorto che le parole che lo compongono, a pagina 66 di questo libro, mi erano servite a caratterizzare l’aspetto stesso che aveva assunto per me l’amore: deve essere questa la somiglianza), allo stesso modo ho voluto ancora che tutto ciò che attendo dal divenire umano, tutto ciò per cui, secondo me, vale la pena di lottare per tutti e non per uno solo, cessasse d’essere un modo formale di pensare, fosse pure il più nobile, per confrontarsi con questa realtà viva nel divenire che siete voi. Voglio dire che ho temuto, in un certo periodo della mia vita, di essere privato del contatto necessario, del contatto umano con ciò che sarebbe stato dopo di me. Dopo di me, quest’idea seguita a perdersi ma si ritrova meravigliosamente in quel batter d’occhio che avete come (e per me non come) tutti i bambini. Ho tanto ammirato, dal primo giorno, la vostra manina. Volteggiava intorno a tutto quel che avevo tentato di edificare intellettualmente e sembrava colpirlo nella sua vanità. Questa mano, che cosa insensata e quanto commisero quanti non hanno avuto l’occasione di miniarne come fosse una stella la più bella pagina di un libro! Povertà, d’improvviso, del fiore. Basta prendere in considerazione questa mano per comprendere quanto è ridicolo l’uomo quando fa il punto di quanto crede di conoscere. Tutto ciò che capisce di questa mano è che è davvero fatta, in tutti i sensi, per il meglio. Questa cieca aspirazione al meglio sarebbe già sufficiente a giustificare l’amore come lo concepisco io, l’amore assoluto, solo principio di selezione fisica e morale che possa corrispondere alla non-vanità della testimonianza, del passaggio dell’uomo.
Pensavo a questo, non senza frenesia, nel settembre 1936, solo con voi nella mia celebre casa inabitabile di salgemma (3). Ci pensavo durante la lettura dei giornali che riferivano più o meno ipocritamente gli episodi della guerra civile spagnola, dei giornali dietro cui credevate che sparissi giocando con voi a nascondino. Ed era pure vero, poiché in quei minuti il conscio e l’inconscio esistevano, sotto la vostra forma e sotto la mia, in un’assoluta dualità uno vicino all’altro e l’uno ignorava totalmente l’altro e tuttavia comunicavano a piacere attraverso quell’unico filo onnipossente che era il semplice scambio di sguardi tra noi. Di certo la mia vita allora non teneva che a questo filo. Era grande la tentazione d’andare a offrirla a quanti, senza possibilità di errore e senza distinzione di tendenze, volevano finirla costi quel che costi con il vecchio “ordine” fondato sul culto di questa trinità riprovevole: la famiglia, la patria e la religione. E tuttavia mi trattenevate per questo filo che è quello della felicità, come traspariva nella trama dell’infelicità stessa. Amavo in voi tutti i bambini dei miliziani spagnoli, simili a quelli che avevo visto correre nudi nei sobborghi di pepe di Santa Cruz de Tenerife. Possa il sacrificio di tante vite umane farne un giorno degli esseri felici! E tuttavia non mi sentivo il coraggio di esporvi con me per sostenere quel che accadde là.
Che prima di tutto sia sotterrata l’idea di famiglia! Se ho amato in voi il compimento della necessità naturale, è nella misura esatta in cui ha fatto nella vostra persona una cosa sola con ciò che era per me la necessità umana, la necessità logica, e che la conciliazione di queste due necessità mi è sempre apparsa come la sola meraviglia alla portata dell’uomo, come la sola occasione che abbia di fuggire di tanto in tanto alla meschina malvagità della sua condizione. Siete passata dal non-essere all’essere in virtù di uno di questi accordi realizzati che sono i soli ai quali ho gradito prestare orecchio. Eravate data come possibile, come certa nel momento stesso in cui, nell’amore più sicuro di sé, un uomo e una donna vi volevano.
Allontanarmi da voi! M’importava troppo, per esempio, sentirvi un giorno rispondere in tutta innocenza a queste domande insidiose che i grandi pongono ai bambini: “Con cosa si pensa, si soffre? Come si impara il proprio nome, al sole? Da dove viene la notte?”. Come se queste stesse persone fossero capaci di rispondere! Poiché per me siete la creatura umana nella sua perfetta autenticità, siete voi che contro ogni verosimiglianza avreste dovuto insegnarmelo…
Vi auguro di essere follemente amata.
trad. Emanuele Pini
(2) Il riferimento è al pittore Pablo Picasso, che frequentò la famiglia Breton in questo periodo.
(3) Riferimento a un luogo di trasparenza, all’esaltazione della creazione spontanea, come la casa di vetro già evocata in Nadja; sempre in Amour fou, I viene cantato il cristallo per le stesse caratteristiche.