Alle prime luci dell’alba il piazzale dei bus a Bombo Road iniziò a pullulare di persone, volti assorti nei propri viaggi e nei propri impegni. Kampala si ridestava lentamente dopo l’ebrezza notturna, nell’esatto momento in cui il baccano delle strade si riaffollava febbrile.
Avvolto in una felpa, nascosto in un cappuccio, rimanevo seduto su una sedia azzurra a rimirare il risveglio di questo cosmo straniero. A un tratto uno stormo di uccelli passò denso sopra i palazzacci arancioni del quartiere, una flotta fitta di uccelli dalle ampie ali, rapidi, potenti, che mi fece alzare lo sguardo, facendomi considerare come lo straniero, qui, ero io.
Da questo parcheggio mi aspettava un lungo viaggio dalla capitale dell’Uganda ad Arua, 800 km dall’altra parte dello stato, in un pullman strabordante di voci, di suoni, di colori, quella che potreste definire un’avventura.
Quando si aprirono le porte del bus “Nile Star” esitai alcuni minuti, scrutai quel che facevano gli altri, la ragazza dalla gonna chiara e le treccine ben accomodate, il giovane che si lavava i denti di fianco alle latrine, i drivers che gettavano con occhi di brace le valigie nelle stive, e alla fine cheto cheto salii a prendere il mio posto, nascondendomi in disparte.
Schiacciato in una seduta interna, appoggiai la testa sullo zaino, ormai abituato allo sguardo giocoso di bambini, donne, adulte attorno a me; non era la prima volta che diventavo l’oggetto di questi esami e neppure che prendevo parte a questa cerimonia della partenza, tanto da conoscere a memoria il prezzo del biglietto: 50000 sterline ugandesi, poco più di 12 euro, per quello che è ritenuto il modo più confortevole per arrivare al nord ovest dell’Uganda, alla terra dei Lugbara.
È a questo punto che una ragazzina velata sui dodici anni prese posto alla mia destra, vicino al finestrino iridato di polvere, aggiungendosi alla celebrazione, e anche il resto della vettura si riempì in pochi minuti finché, quando ormai alle 8 di mattino la vita cittadina si era riaccesa nella sua euforia frenetica, il viaggio finalmente incominciò.
Era iniziata la nostra danza tra i sedili plastificati del veicolo, ritmata dalle buche e i dossi della strada, accompagnata dai colori assurdamente sgargianti dei vestiti.
In questa tipologia di viaggi, che possono diventare estenuanti per lunghezza e intensità, sono solito praticare una tecnica di straniamento per raggiungere un’apatia semidefinitiva, se non alla totale incoscienza, ma non potevo non rimanere affascinato da quella sorta di horror vacui che si manifestava con irruenza in questo rito collettivo.
Al chiasso del motore si aggiungevano infatti le chiacchiere accalorate e le risate dei viaggiatori, a cui si mescolavano lo sfolgorio e il caldo aderente del sole, che poi si sommavano ancora alle canzoni decise e colorate dei video musicali a pieno volume trasmesse sulla tv del bus, per non parlare delle richieste dei venditori ambulanti che assediano il nostro “Nile Star” a ogni fermata: in questo universo sovraffollato non è concesso alcuno spazio inerte e tantomeno un microbo di silenzio.
Così, mentre il percorso proseguiva continuo, a 60 km/h lungo questa strada dritta e dritta e dritta, fuori per ore si srotolò un canto di paesaggi selvaggi e meravigliosi, un continuo papiro di bananeti, mercati, distese verdi a 60 km/h. A 60 km/h leggevo ammutolito quest’abbondanza impudica, finché non mi accorsi che, ogni volta che volgevo lo sguardo verso il finestrino, anche l’adolescente musulmana piegava prontamente il suo volto all’esterno. Un gesto meccanico, spedito e assoluto: anche quando, attraversando il Nilo, sul ponte mi girai a mirare la spuma generata dalle cascatelle del fiume, la ragazza si voltò simultaneamente, come in un passo ardito di una coreografia, un gesto studiato con cura indefessa.
Capii, con un colpevole ritardo: un uomo aveva infatti guardato verso di lei e le era imposto non solo di non incrociare questi occhi, ma di non mostrare il suo volto, come un mistero che debba soggiacere arcano ed eterno.
In effetti, come negarlo, tra noi c’era una distanza abissale, fatta di storie e studi e famiglie e tradizioni differenti, forse anche divergenti, quindi non mi stupii troppo e accettai presto questa situazione, mentre la nostra stella del Nilo proseguiva lungo questa strada dritta e dritta e dritta. 60 km/h.
Fuori il mondo non si intimidiva, fuori stavamo passando per le ricchezze di Parkwatch, fuori alle fermate uno stuolo di inservienti ci offriva ancora ananas, bibite, manioca fritta, arrosticini impolverati a poche migliaia di scellini ugandesi.
Il percorso, dopo più di otto ore, aveva iniziato ad affaticarci e, per distrarre i passeggeri, iniziarono a proiettare anche dei film: il conducente iniziò a proporci cortesemente una produzione nigeriana incentrata su una macchietta dai baffetti alla Charlie Chaplin, tale Ukwa, con le sue peripezie, più idiote che comiche, per poi passare a un film sui combattimenti dell’eroe russo Voica, infine terminare con un classico di fine anni ’80, “Lyonheart”. Il bus intero, come un’unica platea, un unico spettatore, fu rapito dall’evocazione così esotica di questo film, questo ragazzo bianco piccolo ma così potente nella lotta, la potente ragazza bionda che si innamora di lui, e rimase ancora alcune ore sospeso alle mosse cruente di un giovane Jean-Claude Van Damme.
Anche io mi lasciai incantare dalla dolcezza di questa storia dal lieto fine, all’inseguimento di un oblio che durasse qualche altra ora e mi portasse docile sino ad Arua, ma, nei dintorni di Nebbi, 150 km al traguardo, sentii muoversi qualcosa alla mia destra: una testa poggiava leggera sulla mia spalla. Provai un breve sbigottimento ma controllai con la coda degli occhi ed era proprio così: una testa poggiava leggera sulla mia spalla. Provata dai chilometri e dal caldo, la ragazza velata si era addormentata e ora poggiava leggera, quasi schiva, alla mia destra, come se quella diffidenza tanto distante di prima fosse stata erosa dalla stanchezza.
In quelle ultime ore avrei voluto scrivere di Gloria, ma non mi riuscii a spostarmi, a incrinare un equilibrio fragile come uno sguardo mancato. Avrei voluto ricordare di come un giorno una motocicletta l’avesse travolta e di come ancora oggi questa bambina di 5 anni mettesse continuamente un cappello di lana rosso e bianco per nascondere le larghe cicatrici sulla nuca, un cappello che avrebbe messo per tutta la vita. Avrei voluto pensare ancora a Winnie, di come dai suoi quattro anni, da quando suo padre l’abbandonò e sua mamma rimase paralizzata per un incidente, studiò e lavorò per sostenere la propria famiglia e il proprio fratellino. Ora era maestra, moglie di Godfried, maestra alla scuola, ma soprattutto racchiudeva ogni raggio di speranza. Avrei dovuto trovare le parole impossibili per esprimere l’abbraccio di Anuarite, quando mi vide da lontano a Maratsà e mi corse incontro, un abbraccio che non avevo mai ricevuto prima, forte e impulsivo come può stringere solo l’amore di un dio.
Tuttavia non potevo muovermi, mi trattenevo anche quasi dal respirare, mentre la ragazza velata si era assopita sulla mia spalla, dato che sentivo come mi fosse restituito un pezzo di fraternità, forse un’altra piccola parte di me. Di questi minuti, silenziosi, non so aggiungere molto altro, ma è come se le nostre distanze si annullassero e, nelle nostre differenze, ci riconoscessimo a fianco, lungo questa strada dritta e dritta e dritta, a 60 km/h.
Quando arrivammo alle strade di Arua e la danza delle buche si tornò a farsi più scatenata, lei si scosse, rialzò il capo con un timido turbamento, si stirò il velo con la mano destra.
Qui l’autista, dopo dozzine di manovre nel traffico per crearsi un parcheggio, gridò a tutti di scendere e di ritornare nella polvere rossa della ressa stradale, con la stessa enfasi di un presentatore che annuncia al pubblico il termine dell’ultimo spettacolo serale.
Era il segnale inequivocabile che questo viaggio finiva, nonostante per noi viandanti se ne aprissero ancora altri. Noi due, arrivati come stranieri e goffamente bardati dalle nostre storie, ci salutammo impacciati, in lingue differenti, poi tornammo alle nostre strade distanti, distinte. Forse per un’ultima sfida tentai di fissare le sue pupille scure, che ancora scapparono nell’indefinito, ora però non avremmo più potuto negare di aver condiviso questo breve lungo viaggio, in modo chiassoso e in modo velato al tempo stesso: ci siamo incontrati per la prima volta nel parcheggio affollato di Bombo Road, Kampala.
Quando scesi dal bus, il piazzale stanco di Arua era ancora ricolmo di bagagli e tenebre, di viaggiatori e fari elettrici.