venerdì 12 maggio 2017

Pasqua 2017

non voglio raccontare visioni fantastiche come se fossero reali: 
io racconto la realtà come una visione.


sulla strada petrosa per Kamakà con tre coriste
Pasika malamu” incontrate sulla strada
petrosa per Kamakà mentre un bimbo
lacrimava la mamma camminava
spedita avanti e al dorso il figlio che strillava
avanti occhi duri
fissi avanti il figlio urlava una disperazione
che nell’uomo non sa finire
il peso grava. “motengoli ozolumba
masuba” commentano di Gillien lo storpio:
“puzza di piscio”, ridendo di quella disperazione.
ciascuno si trascina la sua ombra, finché annuncia
un angelo dalla tenerezza di donna:
niente. niente è incurabile
nemmeno quanto è inguaribile
niente è incurabile. niente.
e restava la casa delle scimmie
e restava anche il bosco dei manghi
che chiamano incantato e io per una volta
ci credo continua la strada sette miglia
petrosa di Kamakà poiché alla fine
ci saremmo arrivati, alle danze, sette miglia,
alla gente (arriva anche Gillien
e ceste di manghi maturi) alla musica
chiassosa alla festa: è Pasqua.

mercoledì 3 maggio 2017

vi chiedo AIUTO

ndeke azali na mabele te, kasi akolisaka bana na ye



perché disturbarvi con tutto questo e scrivere di un villaggio lontano, di questo mondo altro?
dapprima capita, stando qui, di prendere facilmente coscienza di essere fortunato, eppure col tempo questa percezione si mescola a un sentimento dal sapore più amaro, a un silenzioso senso di ingiustizia.
mi rimane impressa la frase finale di uno dei miei film preferiti, vecchiotto ma che di certo alcuni fra voi avranno ben presente, The Mission di Joffé, sì quello con Robert De Niro e un grandioso Jeremy Irons: 
il mondo è così. no, così l’abbiamo fatto noi, questo mondo, così l’ho fatto io”. e se per molti è facile trovare argomenti per giustificare queste ingiustizie, anche io credo tutto questo sia costruito da noi, dalla nostra storia e non da altro. perciò vi scrivo e provo, timidamente, senza volervi disturbare, a chiedervi un favore.

la Repubblica Democratica del Congo il prossimo inverno entrerà in guerra, attorno al prossimo dicembre. non voglio essere catastrofista e non voglio fare preoccupare nessuno, poiché io sto alla grande e sono più che al sicuro, qui nell'Ituri, grazie al VOICA e alle madri canossiane, io.
non sono nemmeno diventato un profeta, ma quel che verrà non è difficile da prevedere, se la situazione rimarrà questa. qual è la situazione?
non è facile riassumere tutto, ma ci provo, di pancia, sperando che mi perdonerete qualche semplificazione:

in questa storia ci sono un presidente, un’opposizione e una popolazione; come i protagonisti di qualsiasi Paese apparentemente normale, direte voi, se non che…

il presidente, Joseph Kabila, eletto regolarmente nel 2006 e rieletto (più o meno regolarmente) nel 2011, ha finito il suo mandato mesi fa, lo scorso 19 dicembre, una giornata che ha vissuto altissime tensioni interne. l’ennesimo padre della patria/dittatore africano? lascio rispondere a voi, ma no, lui non ci pensa proprio a dimettersi, forse anche considerati gli immensi vantaggi economici che accompagnano questo ruolo (qui si racconta sia uno delle dieci persone più ricche al mondo, ma non saprei bene come verificare), allora tarda, cerca di forzare la costituzione per rendere ammissibile la sua candidatura per un eventuale terzo mandato a delle ipotetiche prossime elezioni il prossimo dicembre, finge un dialogo con la CENCO (la conferenza dei vescovi congolesi), che ha anche partorito un compromesso, quello della “notte di S. Silvestro”… ma di cui non si è fatto più nulla, carta straccia dimenticata. dice che il Paese non ha abbastanza fondi, per queste benedette elezioni, e attende, si nasconde, tanto che è più di due mesi che non fa apparizioni pubbliche, rendendo il Paese sempre più instabile, ingovernabile, tra lo sfruttamento minerario selvaggio da parte delle potenze mondiali, l’invadente propaganda di regime e i ribelli in numerose regioni: non si dimetterà, nemmeno a dicembre, quando il suo mandato sarà scaduto ormai da un anno; non si dimetterà e non ci crede più nessuno.

poi c’è l’opposizione, che da anni si divide in centinaia di protagonismi risibili: la divisione più recente è stata causata dall’eredità spirituale di Etienne Tshisekedi, padre della patria morto poche settimane fa, il 1 febbraio 2017. tafferugli e scontri dialettici per la sua salma, ma nessuna proposta, nessuna unione, insomma nulla di nulla. d’altronde l’attuale e fresco primo ministro, Bruno Tshibala, lo insegna bene: basta ricevere una poltrona, qualche soldo per resettare ogni attrito col potere. è desolante constatare come le beghe politiche, che dovrebbero portare alla promozione umana, nella realtà quotidiana la annichiliscano.

infine, in fondo, quasi dimenticata, rimane la popolazione, ovviamente frustrata, vittima di tutto questo: viene da anni di fame e povertà, di guerre e massacri che faccio fatica a raccontare, ha vissuto una dittatura più che trentennale con Mobutu, vive ancora oggi schiacciata da uno stato di polizia assurdo e da una corruzione dilagante. se vi dicessi, citando solo un dettaglio fra mille, che le forze dell’ordine, anche negli alti ranghi, si sostentano non con una paga regolare ma opprimendo le fasce più povere e indifese? che raramente, se non mai, intervengono senza una mazzetta? i più disperati, i più cinici, i più facinorosi si adeguano alla fiumana o si ribellano con piccoli tumulti contro il governo o chiunque possa apparire suo complice. sì, si parla già di fosse comuni, in seguito agli scontri con l’esercito. a Kinshasa, il centro nevralgico di questa insofferenza, ho visto alcune chiese bruciate, ho conosciuto una suora belga a cui, nel Kasai, minacciavano di tagliare le orecchie come vendetta contro i vescovi che, a loro modo di vedere, non riescono a convincere il presidente a fare un passo indietro. semplice capire dove andrà a incanalarsi tutta questa rabbia, facile prevedere in quale abisso cadrà la RDC su questo sentiero.

e la comunità internazionale? beh, guarda dall’esterno, fa tenui denunce formali (di poche settimane fa quella dell’UE) ma rimane troppo coinvolta dagli immensi interessi commerciali nel Paese per poter alzare la voce, anzi probabilmente si appresta solo a incoronare, a legittimare il primo vincente di turno.

per quanto mi riguarda non mi interessa chi abbia o meno ragione ma è straziante, straziante, straziante pensare che tante persone a cui voglio bene, tante opere buone fatte in questi anni, tanti progetti per il futuro di un popolo, generazioni di bambini e ragazzi già provati da ogni sofferenza possano fra qualche mese essere cancellati, annullati, annientati, per l’ennesima volta, dalla cecità della violenza. straziante.

spero di non essere stato troppo chiaro ed esplicito, ma è la realtà è questa: se tutti continueranno a lavarsi le mani, se noi continueremo a pensare quanto sia tutto inutile o lontano, la Repubblica Democratica del Congo il prossimo inverno entrerà in guerra, con milioni di morti innocenti, come spesso succede, come è già successo
cosa si possa fare neanch'io forse lo so e proprio per questo chiedo aiuto a voi: aiutateci, aiutateli, finché siamo in tempo, non lasciamoli soli, distanti, ma al contrario avviciniamoci. non so che si possa fare, davvero, e non si può donare se non spontaneamente, ma vi chiedo un solo favore, timidamente, senza volervi disturbare: leggete, parlate, scrivete, cantate, condividete, danzate, venite, litigate o quello che preferite, ma fate, fosse solo anche pensare: è tutto vero e non guardiamo all'ennesima tragedia dell’Umanità come estranei, come dal finestrino, come se noi, i nostri cellulari e il nostro mondo non c’entrassimo niente.

e anche se dovessimo sentirci inutili, qui c’è questo proverbio, “ndeke azali na mabele te, kasi akolisaka bana na ye”, che potrebbe suonare più o meno così: “il passero non ha mammelle, eppure nutre lo stesso i suoi infanti”, e in questo io ho fiducia spassionata.
grazie, di cuore, anche solo per aver letto sino a qui.

Emanuele



ps. per sapere di più, date un’occhiata anche qui, per un Congo raccontato dai Congolesi:
mentre in italiano:

lunedì 24 aprile 2017

mon cœur s'ouvre à ta voix - le fleuve Congo



mon cœur s'ouvre à ta voix,
comme s'ouvrent les fleurs
aux baisers de l'aurore!
mais, ô mon bienaimé,
pour mieux sécher mes pleurs,
que ta voix parle encore!
dis-moi qu'à Dalila
tu reviens pour jamais.
redis à ma tendresse
les serments d'autrefois,
ces serments que j'aimais!
ah! réponds à ma tendresse!
verse-moi, verse-moi l'ivresse!


il mio cuore si apre alla tua voce
come si aprono i fiori
ai baci dell'aurora!
ma, o mio amato,
per meglio asciugare le mie lacrime,
parli ancora la tua voce!
dimmi che da Dalila
torni per sempre.
ripeti alla mia tenerezza
i giuramenti di un tempo,
quei giuramente che amavo!
ah! rispondi alla mia tenerezza!
versami l'ebbrezza!

da "Samson et Dalila" di C. Saint-Saens

mercoledì 5 aprile 2017

2 Re 3, 16 - nudità

il mondo si tramanda per storie, per racconti.
io amo questo episodio su Giosafat, tratto dal II libro dei Re.
che si accumulano tante cose tanto rumore confusione MAIUSCOLI tante immagini tanti colori tante sensazioni, si accumulano come in un deposito senza padrone, si accumulano, dico una banalità, perché abbiamo tanta paura del nostro vuoto, della nostra nudità, di non saper più sentire la nostra emozione, la nostra armonia.
che è uno SPLENDORE, aggiungo io.
perché, lo dice il nipote di un geometra, non si può edificare senza togliere e spesso scavare è meglio di costruire.


d'altronde quello che faccio più fatica a fare qui non è discutere, lavorare, conoscere, ma è imparare a mangiare con le mani.


“andate a chiamare un suonatore di cetra”
annunziò allora il profeta al sire
“scava dove il letto appare secco scava
dove il fiume muore scava e zampillerà!”
solo i serpenti preferiscono strisciare nella propria polvere
qui suis-je? apprendere l’alba
e lo spegnersi e la gloria del fiore e la malattia
così comprendersi uno ASSIEME all’universo
“qu’est-ce que veut dire ce mot?”
SOLITUDE quando uno si sente
solo “e come può essere solo
un uomo?” visage decouvert
scavò Giosafat scavò e zampillò
e Sisifo assiso stette sul sasso
io, Lemi, Ayikoru marciavamo cantando


nell’atlantide rossa del primo mondo

venerdì 24 marzo 2017

da Ariwara a Kinshasa: cronaca di un viaggio imprevisto


"può il battello affondare
anche in porto" ricorda un proverbio lugbara
allora si è partiti per attraversare
il mondo intero e l'intero me attraversare
le rovine coloniali di Nioka hotel
titanic davanti agli alti tronchi di Katanga
raccontano gli scaltri incesti dei Baluba
c'è pure un torneo di palla martedì
mattina tutto apparentemente normale
le orme di un uomo
capanne di Djalabiga aperte sul nulla pietre
primordiali a precipizio
Ngiri
Libi
i corvi di Fataki, alla griglia
tra camion rovesciati e lasciati a ingiallire
sino all'asfalto di Bunia dai dollari verdi
ben stirati da caschi blu col proclama
MONUSCO appena a due km da Irumu
Mangiva
Makaninga
Komanda
Mangusu
Yankutu siamo
scimmie scacciate dal caos della foresta
Bandiboli
Bandikola
Bandibalesu
ora verso questa domandiamo vendetta
Bandiamosi
Bandiseibo
Bandikafu
e altri cento villaggi
Pukele
Mambasa
Banana Ecole
Niania
Avakudi
e altri cento villaggi e pigmei
in penombra nella brousse
si turano le orecchie al nostro passaggio
non parlano pioggia
notte al blocco - km 23
ma all'aurora Kisangani, l'isola, sorge

(la chiamarono Stanleyville, 1883)
piccola Europa d'Africa elegante
dei quartieri di case coloniali ora
colorate da Wagenia Baonga Lokele
Topoke il fiume Congo non muore a sera
le spiagge belghe assolate e il titano
che illimitato ruggisce e canta incontenibile

il Parsifal tra le piroghe scorre
la ferita scorre come una redenzione
abbiamo ancora un volo per Limete, Kinshasa
la plus belle la poubelle
in attesa del cadavere vecchio, esiliato
di Etienne Tshisekedi Kinshasa
lungo il chiasso di boulevard Lumumba
cumuli di scarto umano non accetto
che vende manciate di cikwange
e disperazione a due franchi
"ti ricordi di me?" e papà Nestor impazzito
indicava la luce muto
3699 km, leggo, di foresta, 148
ore, dove dappertutto il drappo e s'esibisce
Debout, Congolaaais le orme
di un'anima: ebale Congo ekokufa
na butu te.














giovedì 16 febbraio 2017

credo

c'è un tempo in cui il sarcasmo disincantato, l'apatia sterile, l'ironia annoiata lasciano lo spazio a qualcosa in cui credere per davvero, sul serio, un tempo in cui il cinismo è chiamato a dare una risposta, con tutto se stesso. e io voglio crederci.

credo che le libellule siano particelle audaci
credo che le tigri azzannino i prigionieri
credo che i serpenti sappiano zampillare
e credo che sarà questo

il modo in cui apprenderò a volare.


domenica 5 febbraio 2017

lettera a un'amica



Amica mia,

mi chiedi spesso come stia e io ogni volta ti rispondo “alla grande!”, con ogni sincerità, ma capisco che quelle poche parole non dicono poi granché, quindi cercherò di raccontarti di più, come riesco.

Sei mesi di docce fredde, a volte con secchi, a volte senza luce, e lavando a mano i soliti quattro vestiti ormai scoloriti. La bellezza dell’essenziale, dico io, che, almeno in parte, l’ho ricevuta in dono.

Sei mesi a mangiare manioca in ogni modo possibile, apprezzare fufu (polenta di manioca), pondu (foglie di manioca) e muchicha (una sorta di coste), sperimentare formiche e cavallette grigliate, amare arachidi (crude, grigliate o bollite) e tusca (i nostri pop corn), salutando da lontano formaggio, tartare di manzo e cioccolato.

Sei mesi per adattarsi al francese congolese, imparare il lingala, dover sapere anche qualcosa di lugbarati, il dialetto locale, pur sapendo che troverò sempre qualcuno che parlerà solo una nuova parlata sconosciuta, sperduta e affascinante.

Sei mesi di contrattazioni accese al mercato, dove l’odore d’olio di palma pervade ogni cosa, anche le banconote. Sei mesi di sabbia rossa nei sandali, di piedi sporchi e incalliti, di piedi nudi e distrutti per le partite a calcio tra l’erba alta.

Sei mesi di sole, sole e sole, fino ad azzerare ogni pensiero, poi la notte amare le stelle di ogni notte come se fosse l’ultima notte del mondo. Sei mesi di pelle nera, scura come le profondità della terra e gli abissi del sogno, in cui sono io quello che si sente strano, con queste mani pallide come un fantasma. Sei mesi in cui sentirsi sempre straniero e sempre a casa, anche se l’impiegato dell’ufficio dell’immigrazione rimane dietro l’angolo coi suoi visti e le sue carte bollate.

Sei mesi di messe affollatissime e, nonostante la durata sia di tre/quattro ore, vivere l’incanto dei canti e delle danze continui di migliaia di persone, fino a voler far parte di una corale, in cui sono senza dubbio, lo posso testimoniare con orgoglio, il bianco più bravo.

Sei mesi di tanti casini e avventure, di tante persone e tanti doni, di novità e amici, di militari e pazzi, di santi e di malati, sei mesi di viaggi, di zanzariere e di qualche malaria, sei mesi di tante situazioni incredibili che non basterebbe un’enciclopedia, ma anche di tanto lavoro e fatica. Sei mesi di ospedale, con qualche lavoro manuale, e in farmacia, e alla cassa, e per ogni questione informatica, e passare ogni giorno nei vari reparti, salutare, chiedere, ricevere tanti sorrisi. Sei mesi straordinari che sono già troppo, da raccontare e a volte, temo, anche da ricordare in ogni straordinario dettaglio.

Sei mesi di sveglie all’alba, e in tutti questi mesi ogni mattina mi sono svegliato e mi sveglio felice, poiché, qualsiasi cosa possa accadere qui, si vive la libertà. No, non la mia libertà, la loro: la loro libertà di essere felici, nonostante tutto e tutti.

A volte, a vederli, mi chiedo come possano resistere: non possono andare avanti così, ne sono sicuro.
Eppure sopravvivono e vivono, alla mattina si alzano, poi si affaticano, poi gioiscono, poi si addormentano alla sera e vivono, diamine!, con le stesse emozioni, sfide, con lo stesso cuore di uomo d’Europa o d’America, anche più libero.

In lugbarati ci si saluta sempre così, in ogni occasione: “ngoni ya?” (c’è qualche problema?) “ngoni yo!” (nessun problema!). In ogni occasione.

Mi ricordo ancora quando, chiacchierando con Marco (era una mattina), mi aveva spiegato la sua personale etimologia di “Afreeka”: la terra della libertà; non la riesco più cancellare dalla mente e, camminando tra le capanne, scambiando due parole con qualcuno, il loro sguardo mi conferma che ci aveva proprio azzeccato. Poiché, nonostante il dolore, la povertà, il nulla tra le mani, in fondo a tutto questo luccica vivo qualcosa, a cui non so dare un nome: speranza? fede? voglia di vivere? Proprio là nel profondo dove spesso da noi, tra il chiasso e i bagliori del benessere, non si vede che il nulla.

Che io amo l’Europa, diamine, che è casa mia, la madre mia e di quello che amo, ma da lontano mi sembra tanto piena di paure e di odio, tanto frenetica e stanca da apparire Lei barbara e brutale, disumana; ma forse è solo la lontananza.

Mi ricordo i dialoghi notturni con Bakhita, l’anno scorso, quando ogni volta eravamo stupiti e sconvolti di quanto qui respirasse un’altra vita e capivamo che una goccia più una goccia non fa due gocce, ma una goccia più grande.

Così ora inizio a pensare che il mondo non sia né pura idea né desolata materia ma consapevolezza, quella del rapporto tra questo me e l’altro.

“Bisogna attraversare l’acqua con una candela accesa” profetizzava un film di anni fa e chissà se non sarà la nostra cultura ad aiutare gli africani, ma piuttosto l’ “Afreeka” a salvare noi, a portare una candela accesa di una vita autentica attraverso il mare mostruoso del nulla.

la pioggia cade la pioggia
cenere in caduta cenere
da un incendio nei paraggi ormai lontano
e sono diventato alba all’aurora tramonto
al crepuscolo chinando il capo
la pioggia cade la pioggia
e ho camminato camminato senza casa camminato
e ho dato congedo alla mia anima fuggita
la ragazza allattava nel silenzio
come una galassia generatrice
la pioggia cade la pioggia qui
e ho calcato le colline di Watsa
e ho varcato le capanne divorate dalle termiti
e ho raccolto il sudore di un uomo
come incenso di una cattedrale piove
Dieumerci resta in coma sul suo lettuccio “dorme”
l’immagino io l’amaro
della bocca impastata di chinino
il ventre gonfio che affanna
la pioggia cade la pioggia qui e dovunque
i prati pieni di bimbi a ballare
battere le mani ballando in tondo
saltano ballano nei prati
durante la messa domenicale
le vesti bianche e lise della festa
come se questa polvere non arrossasse
di terra e fango qualcuno
muore qualcuno ride heuresement
notre dieu est congolais
la chiesa di Ayiforo che si abbronza
nei secoli dei secoli di questo sole
e tutto piove dappertutto

Ecco, anche se non sono stato chiaro a sufficienza, anche se forse ho blaterato sin troppo su di me, spero di averti detto di più: sei mesi fa sono partito, ho viaggiato molto, ma non sono ancora arrivato e non sono ancora stanco.


E tu? Come stai, amica mia?