sabato 14 giugno 2025

Una Giraffa nell'armadio/8: L. Aragon, "Un'ondata di sogni"

M. Ernst, La nascita di una galassia, 1969


Il 14 ottobre 1924 Breton pubblica per le éditions du Sagittaire il primo "Manifesto del surrealismo", che definisce le regole e i principi del movimento, e a
cui farà seguire altri testi programmatici.

Nel 1924 però viene diffuso un altro manifesto del surrealismo, forse meno conosciuto, ma un'altra pietra miliare che segnerà il cammino del gruppo: "Une vague de rêves", ovvero "Un'ondata di sogni", composto da Louis Aragon (1897-1982), uno dei tre moschettieri del surrealismo.

Composto nell'estate e pubblicato sulla rivista "Commerce" n.2 in ottobre, questo testo risulta molto meno dogmatico e teorico, più narrativo, ma ugualmente appassionato e può essere diviso in cinque semplici sequenze:

1. introduzione, sincera e immaginifica al tempo stesso, in cui si introduce il concetto di surrealtà;

2. storia della nascita del gruppo surrealista, a partire dalla fine dell'esperienza Dada, con gli esperimenti ipnotici di Desnos; in questa parte Aragon giustifica anche le scelte prese dal gruppo e definisce la surrealtà;

3. riconoscimento dei padri, dei "presidenti della repubblica" del sogno, tra i quali cita anche Raymond Roussel, Saint-John Perse, Pablo Picasso, "Georges" de Chirico, Sigmund Freud;

4. vera e propria rassegna dei membri del surrealismo, presentati in maniera personale, intima, onirica;

5. conclusione, ancora più appassionata, in cui si esplicita come questo movimento sia una sfida senza vantaggio, un'impresa paragonabile alla follia di Fetonte, una volontà di aprirsi, oltre il razionale, all'infinito.

Due manifesti che, pur partendo da principi simili, parlando del medesimo oggetto, evidenzia differenze metodologiche e contenutistiche già significative, per questo l'analisi di queste poche pagine può risultare essenziale per la comprensione dell'intero movimento. 

A voi dunque una mia traduzione del testo, per osservare il 1924 surrealista da un altro punto di vista.



LOUIS ARAGON, UN’ONDATA DI SOGNI

Perché ti rattristi, mia Celia? Al posto di un marito spregevole avrai un amante degno di te. Godi della tua fortuna e gustane segretamente le gioie. Vedi su cosa ora puoi regnare, non come regina di un attimo ma come una principessa incoronata. Guarda. Ecco una collana di perle, ciascuna delle quali è più splendente di quella indossata un tempo dalla bella Egizia. Sciogli, bevile. Ecco un rubino che supera gli occhi di san Marco; un diamante che Lollia Paolina avrebbe voluto comprare, quando arrivò, come una stella ricoperta di gioielli, mostrando il bottino delle province conquistate. Prendile, portale, perdile. Ti basteranno questi orecchini per riacquistarle tutte, perché valgono quanto tutto il resto. Una gemma, che rappresenta una ricchezza personale, non ha valore; noi ne spendiamo il prezzo a ogni pasto. Delle teste di pappagallo, delle lingue di usignolo, dei cervelli di pavone e di struzzo saranno il nostro cibo e, se possiamo arrivare a prendere la fenice, la cui specie si è perduta, la affetteremo a tavola

Ben Jonson, Il Volpone


Mi capita di perdere di colpo il filo della mia vita: mi domando, seduto in qualche angolo dell’universo, di fronte a un caffè nero e fumante, davanti a dei pezzi lucidi di metallo, al centro dei viavai di donnoni dolci, mi domando per quale cammino della follia alla fine mi areno sotto quest’arco, che in verità è questo ponte chiamato cielo. A questo momento in cui tutto mi sfugge, in cui delle immense lucertole si fanno largo nel palazzo del mondo, a lui sacrificherei tutta la mia vita, se solo volesse durare per questo risibile prezzo. Allora lo spirito si sbarazza un poco della meccanica umana, allora non sono più la bicicletta dei miei sensi, la mola che affila ricordi e incontri. Allora afferro in me il fortuito, afferro d’un colpo come superare me stesso: il fortuito sono io e, formulata questa tesi, rido al ricordo di tutta l’attività umana. È senza dubbio a questo punto che ci sarebbe della grandezza nel morire, è senza dubbio a questo punto che si uccidono, quelli che un giorno partono con uno sguardo chiaro. Comunque sia è a questo punto che comincia il pensiero, che non è affatto quel gioco di specchi in cui molti eccellono, senza pericolo. Se si è provata questa vertigine, anche una sola volta, sembra poi impossibile accettare ancora le fisse meccaniche in cui si riassume oggi quasi ogni iniziativa dell’uomo. E ogni sua tranquillità. Ci si accorge, in fondo alla congettura che sembrava la più pura, di un assioma mai considerato, che sfuggiva alla critica, che obbediva a qualche altro sistema dimenticato, il cui processo non è più valido, ma che lasciava tuttavia questo solco nello spirito, questa formula mai più dibattuta. Così i filosofi parlano per frasi fatte e così dimostrano. Incatenano le loro immaginazioni a questi anelli estranei, rubati da tombe celebri. Fanno distinzioni di sfaccettature dalla verità, credono in verità parziali.

Ho vissuto nell’ombra di una grande costruzione bianca ornata di bandiere e grida. Non mi era permesso di allontanarmi da questo castello, la Società, e quanti salivano per la scalinata alzavano sul tappeto una terribile nube di polvere. Patria, onore, religione, bontà, era difficile riconoscersi nel mezzo di questi vocaboli senza numero gettati all’impazzata all’eco dei venti. Tuttavia lentamente districavo le loro più solide convinzioni. Si riducono a ben poco. “La tendenza di ogni essere a persistere nel suo essere” è una delle loro formule preferite, anche se l’edonismo è molto screditato ai loro occhi; l’espressione dispregiativa “Macchiato di finalismo” basta loro a condannare qualsiasi cosa; alla fine aprono dei paragrafi della loro vita intellettuale con questa frase tanto gradita: “Evitiamo per un istante il velo delle parole”. Che tali metodi li portino a realizzare delle ipotesi, e delle ipotesi a posteriori, ecco, che non sospettano mai. I loro spiriti sono dei mostri ibridi, figli del singolare amore di ostrica e poiana. Ma i gobbi del pensiero non temono affatto che i passanti abbiano appena sfiorato per superstizione la loro malformazione portafortuna. Loro sono i re del mondo e i carcerieri di questa prigione da cui sento le loro canzoni gioviali e il rumore delle chiavi in movimento.

Talvolta, se qualche visitatore si preoccupava temporaneamente di ciò che mi occupava nella reclusione dove, si diceva senza ironia, mi isolavo, se qualcuno che non ne sapeva troppo se dovesse dubitare di me o di se stesso, in un istante arrivava alla stravaganza della mia esistenza, alle mie risposte saliva presto nei suoi occhi il riflesso del fantoccio dell’incredulità. Come avrebbe ammesso che io non cerco mica la felicità? Che non c’è alcun pensiero se non nelle parole? E tuttavia talvolta questo visitatore, portato da una moda e dalla convinzione nella forza di una dottrina, si appellava all’idealismo. Allora cominciavo a capire che avevo davanti a me un altro imbarazzante realista, come lo sono oggi gli uomini di buona volontà, che vivono in un compromesso tra Kant e Comte, che hanno creduto di fare un grande passo rifiutando la volgare idea della realtà per preferirle la realtà in sé, il noumeno, questo scadente gesso smascherato. A questi qui nulla farà capire la vera natura del reale, che non è che un rapporto come un altro, che l’essenza delle cose non è affatto legata alla loro realtà, che ci sono altri rapporti col reale, differenti, che lo spirito può cogliere e che sono altrettanto principali, come il caso, l’illusione, il fantastico, il sogno. Queste diverse specie sono riunite e conciliate in un genere che è la surrealtà.


Per quale via appare un concetto, attraverso quale svolta, è davvero un argomento oggetto di gran meraviglia. Era necessario affinché l’idea della surrealtà facesse affiorare la coscienza umana da straordinarie scuole e gli avvenimenti dai secoli ammucchiati. E poi dove le piace emergere? È al centro di considerazioni davvero particolari, nel corso della risoluzione di un problema poetico, al momento è vero dove la trama morale di questo problema si lascia scorgere, che André Breton nel 1919 applicandosi a carpire il meccanismo del sogno ritrova alla soglia del sonno la soglia e la natura dell’ispirazione. Nell’approccio, questa scoperta, che già solo in ciò è grande, non è nient’altro per lui, né per Philippe Soupault che si dedica con lui alle prime esperienze surrealiste. Ciò che li colpisce è un potere che non conoscevano, una fluidità incomparabile, una liberazione dello spirito, una produzione di immagini senza precedenti e il tono soprannaturale dei loro scritti. Riconoscono in tutto quel che nasce in loro, così senza provare che ne siano responsabili, tutto il sublime di alcuni libri, di alcune parole che li emozionano ancora. Percepiscono all’istante una grande unità poetica che va dalle profezie di tutte le popolazioni alle Illuminazioni e ai Canti di Maldoror. Tra le righe, leggono le confessioni incomplete di quanti un giorno hanno tenuto in pugno il Sistema: alla luce della loro scoperta la Stagione all’inferno perde i suoi enigmi, la Bibbia e qualche altra confessione dell’uomo, sotto le loro  diavolo d’immagini. Ma siamo alla veglia di Dada, la morale che si  sottrae per loro da questa esplorazione, è il bluff del genio; allora ciò che si impadronirà di loro è l’indignazione di fronte a questo trucco, questa truffa che propone i risultati letterari di un metodo e camuffa questo metodo, e camuffa che questo metodo è alla portata di tutti. Se i primi sperimentatori del surrealismo, il cui numero inizialmente è ristretto, si lasciano andare a loro volta a questo esercizio letterario, è perché si sentono capaci di scoprire un giorno le carte e perché per primi provano questo grande fascino venuto dalle profondità. E inizialmente operano in tutta tranquillità, dato che il mondo ride forte delle loro canzoni.

Ciò che tutto d’un tratto farà immaginare loro l’abisso al bordo del quale si sono accampati, ciò che aprirà loro gli occhi su questo campo di comete che per caso hanno arato, è l’effetto imprevisto del surrealismo sulla loro vita. Ci si sono gettati come in un mare e come un mare fallace ecco che il surrealismo minaccia di trascinarli verso il largo dove incrociare gli squali della follia. Ho pensato spesso a quest’uomo che ha assemblato per primo delle piccole placche sensibili, tizzoni di carbone e fili di rame, credendo di arrivare a registrare le vibrazioni della voce, e che, montato il macchinario, ha ascoltato senza difetto il suono della voce umana.

Allo stesso modo i primi surrealisti, quando sono arrivati a una fatica estrema per l’abuso di quel che sembrava loro ancora un semplice gioco, hanno visto ergersi i prodigi, le grandi allucinazioni che accompagnano l’ebbrezza delle religioni e delle sostanze stupefacenti. Era al tempo in cui, riunendoci la sera come dei cacciatori, facevamo la tabella della nostra giornata, il conto delle bestie che avevamo inventato, delle piante fantastiche, delle immagini rappresentate. Il bottino della nostra un’accelerazione, passavamo un numero crescente di ore in questo esercizio che ci consegnava delle regioni sconosciute di noi stessi. Ci piaceva osservare l’andamento dei nostri sforzi, lo smarrimento che li seguiva. Poi sono apparsi i prodigi. Inizialmente ciascuno di noi credeva di essere l’oggetto di un disturbo particolare, lottava contro questo disturbo. Presto invece si è rivelata la sua natura. Tutto avveniva come se lo spirito, arrivato a questa svolta dell’incosciente, avesse perso il potere di riconoscere dove si riversasse. In esso permanevano delle immagini che prendevano corpo, divenivano materia reale. Queste si esprimevano secondo questo rapporto, in una forma sensibile. Queste rivestivano anche i caratteri di allucinazioni visive, uditive, tattili. Sentivamo tutta la potenza di queste immagini. Avevamo perduto il potere di maneggiarle. Eravamo divenuti di loro dominio, eravamo noi la loro cavalcatura. In un letto, al momento di dormire, per la strada con gli occhi spalancati, con ogni strumento di terrore, davamo la mano a dei fantasmi. Il riposo, l’astensione dal surrealismo hanno fatto sparire questi fenomeni, ci hanno permesso di comprendere quale legame li collegasse ai fenomeni più vicini che seguono la somministrazione di un agente chimico, e il timore che ha fatto dapprima sospendere delle investigazioni che col tempo  hanno ripreso tutti i loro diritti sulle nostre curiosità. L’identità dei disturbi provocati dal surrealismo, dalla fatica fisica, dagli stupefacenti, la loro somiglianza con il sogno, le visioni mistiche, la semiologia delle malattie mentali ci hanno condotto a un’ipotesi, l’unica che potesse rispondere a quest’insieme di fatti e ricollegarli: l’esistenza di una materia mentale, che la somiglianza delle allucinazioni e delle sensazioni ci spingeva a considerare differente dal pensiero, una materia mentale di cui il pensiero stesso non poteva essere, neppure nelle sue modalità sensibili, che un caso particolare. Questa materia mentale noi la sperimentavamo mediante il suo potere concreto, mediante il suo potere di concrezione. La vedevamo passare da uno stato a un altro ed è per queste trasmutazioni che ce ne rivelano l’esistenza che allo stesso modo eravamo informati sulla sua natura. Vedevamo, per esempio, un’immagine scritta che si presentava innanzitutto  con il carattere del fortuito, dell’arbitrario, raggiungere i nostri sensi, spogliarsi dell’aspetto verbale, per rivestire le modalità fenomeniche che avevamo sempre creduto impossibili da provocare, solide, al di là della nostra fantasia. Nulla ci assicurava più che tutto quel che si produceva nel campo della nostra coscienza e del nostro corpo non fosse sorto per l’effetto di questa attività paradossale a cui avevamo d’improvviso preso parte. Così, immaginando la reciprocità della nostra esperienza, ogni sensazione, ogni pensiero per farne un’indagine noi li riducevamo a una parola. Il nominalismo assoluto trovava nel surrealismo una dimostrazione eclatante e alla fine ci appariva che questa materia mentale di cui parlavo era il vocabolario stesso: non esiste del pensiero fuori dalle parole, tutto il surrealismo conferma questa tesi, che, nonostante non sia nuova, oggi incontra più incredulità rispetto alle generiche opinioni smentite continuamente dai fatti dei realisti e spazzate via una bella sera di pioggia al Pantheon.

Si vede allora quel che è il surreale. Ma non è possibile coglierne la nozione se non per estensione, al massimo è una nozione che fugge come l’orizzonte davanti al viandante, dato che come l’orizzonte essa è un rapporto tra lo spirito e ciò che non attende mai. Quando lo spirito ha esaminato il resoconto del reale in cui ingloba indistintamente quel che è, gli oppone spontaneamente il resoconto dell’irreale. Ed è solo quando lo spirito ha superato questi due concetti che può immaginare un resoconto più generale, in cui questi due sono vicini, che è il surreale. La surrealtà, connessione nel quale lo spirito ingloba le nozioni, è l’orizzonte comune delle religioni, delle magie, della poesia, del sogno, della follia, delle ebbrezze e della vita creativa, questo caprifoglio tremolante che pensate basti per popolarci il cielo.

Un niente dissipa le nuvole e lo stesso vento poi le raduna. Anche un’idea ha le sue frange d’oro. Il sole gioca un poco con i fantasmi. Dei bravi ballerini senza scarpini e ciò che fa il prezzo dei loro passi è questa catena spezzata alle loro caviglie. Oh fantasmi dagli occhi cangianti, bambini dell’ombra, attendetemi, io arrivo e voi già svoltate. Non superate i fiori d’acacia, i picchetti d’onore, la tribuna, io arrivo: e tuttavia voi svoltate in altri vicoli di biancospino con le vostre sciarpe di riflessi e i domino della distrazione perpetua. Come seguire un’idea? I suoi sentieri sono pieni di farandole. Appaiono delle maschere ai balconi. Tutta la vita ci sollecita, quando passiamo, le nostre donne al braccio, e ci offre delle violette: tutti i problemi in mazzetti. Mia cara, ancora una venditrice, e là ancora un bacio. Dada è stato un processo morale e, a sua maniera, un fantasma. Abbiamo vissuto questa esistenza infestata, che non permetteva neppure l’applicazione dello spirito ai concetti. In fondo ai nostri propositi regnava una vaga opinione sentimentale del surreale, una specie di gusto premonitore dell’abisso, allora anonimo, senza volto. Un bel giorno lo spettro si lacerò con le sue mani d’ossa, per il senso dell’altezza. Un lungo periodo di stupore ha seguito questa ripartizione delle nubi.

Il numero dei surrealisti era accresciuto. Gente giovane che andava alla sbronza, alla confusione di se stessa, allo scacco, senza guardare indietro, dove luccicava sempre l’incendio delle manifestazioni e delle grida, che tuttavia ha sempre un grande fascino. Quando inizialmente si dedicavano a un vizio, ci si precipitavano. Era necessaria una circostanza simile a un anello al dito di una donna incontrata, simile al disegno al muro di una sala d’attesa, affinché l’idea surrealista prendesse una svolta inaspettata. Questa ha avuto luogo al bordo del mare, dove René Crevel ha incontrato una signora che gli ha insegnato a dormire di un particolare sonno ipnotico, simile piuttosto allo stato sonnambolico. Lui teneva allora dei discorsi di straordinaria bellezza. Un’epidemia di sonno si è abbattuta allora sui surrealisti. Un gran numero di loro, seguendo con precisione variabile il protocollo inventato, hanno scoperto una facoltà simile e, verso la fine del 1922 (avete notato come questo periodo dell’anno è propizio ai grandi bagliori?), sono sette o otto che non vivono più che per questi istanti di oblio, in cui, spente le luci, parlano, senza coscienza, come degli annegati all’aria aperta. Questi istanti si fanno sempre più numerosi ogni giorno. Ogni giorno vogliono dormire sempre più. Si ubriacano delle loro parole se le si riporta loro. S’addormentano dappertutto. Ora si tratta davvero di seguire il rito iniziatico. Al café, nel brusio delle voci, a piena luce, i contatti, a Robert Desnos basta chiudere gli occhi e parla e, tra i boccali e i sottobicchieri, tutto l’oceano crolla con i suoi fracassi profetici e i suoi vapori ornati di lunghe oriflamme. Che questi che interrogano questo dormiente straordinario lo orientano appena e subito la profezia, il tono magico, quello della rivelazione come quello della Rivoluzione, il tono del fanatico e dell’apostolo si manifestano. In altre condizioni Desnos, per poco che si dedica a questo delirio, diverrebbe il capo di una religione, il fondatore di una città, il tribuno di un popolo ribelle. Parla, disegna, scrive. Le coincidenze accompagnano ben presto i racconti dei dormienti. Ben presto si vede nascere l’era delle illusioni collettive, e dopo tutto sono queste delle illusioni? Le esperienze ripetute tengono quanti vi si sottomettono in uno stato di irritazione crescente e terribile, di folle irrequietezza. Smagriscono. I loro sonni sono sempre più prolungati. Non vogliono più che li si risvegli. Si addormentano nel guardare un altro dormire e a questo punto dialogano come genti di un mondo cieco e lontano, litigano e talvolta bisogna strappar loro i coltelli dalle mani. Delle vere e proprie devastazioni fisiche, la difficoltà a più riprese di sottrarli da uno stato catalettico dove sembra passare come un soffio della morte, spingeranno presto i soggetti di questa straordinaria esperienza, per la preghiera di coloro che li osservano affacciati al parapetto della veglia, a sospendere questi esercizi, che né le risate né i dubbi hanno potuto disturbare. Allora lo spirito critico riprende i suoi diritti. Ci si domanda se dormissero veramente. Nel cuore di alcuni si trova una negazione di quest’avventura. L’idea della simulazione è rimessa in discussione. Per quanto mi riguarda, non ho mai potuto farmi un’idea chiara di quest’idea. Simulare una cosa è altro rispetto al pensarla? E ciò che è pensato, è. Voi non mi farete cambiare questa posizione. Che mi si spieghi, d’altronde, attraverso la simulazione, il carattere geniale dei sogni parlati che si dispiegavano davanti a me! Il grande impatto di un tale spettacolo richiedeva necessariamente delle spiegazioni deliranti: l’aldilà, la metempsicosi, il meraviglioso. Il prezzo di queste interpretazioni era l’incredulità e la risata. In verità,  queste erano meno false di quanto non si possa credere. Perché senza dubbio, i fenomeni di cui un concorso di coincidenze ci rendeva testimoni appassionati non sono per nulla di natura differente rispetto a tutti i fatti soprannaturali che la modesta ragione umana rigetta con le equazioni troppo difficili nel cestello dell’oblio dell’avvenire. Senza possibilità di dubbio si tratta di una modalità di surrealismo nella quale la fiducia nel sonno svolge in rapporto alla parola lo stesso ruolo della velocità nel surrealismo scritto. Questa fiducia, e innanzitutto la messinscena che l’accompagna, abolisce, come la velocità, il fascio di censure che intralcia lo spirito. La libertà, questa parola magnifica, ecco il punto dove prende per la prima volta un senso: la libertà comincia dove nasce il meraviglioso. A questo punto si può anche immaginare quel che sono i surrealismi collettivi, in che modo il surrealismo spinge un intero popolo a credere a dei miracoli, a delle vittorie militare e ciò che alla fine si è generato alle nozze di Cana e a Valmy. E ai piedi di questo mulino magico è vero, solo questo è vero, che l’acqua contadina è stata trasformata in vino e in sangue mentre le colline cantavano. O dementi increduli, anche voi avete allora abbassato la testa di fronte alle parole armate che alzavano un lungo lembo dell’azzurro.


Un’idea che si è formata non si limita a essere, si riflette: essa esiste. Allo stesso modo il concetto della surrealtà per due anni è tornato in se stesso portando con sé un universo di decisioni. E in questo ripiegamento trova innanzitutto le immagini che hanno condotto alla sua genesi, come un figlio ritrova i suoi genitori nel momento in cui tutto il suo corpo è costituito e mosso nelle sue particelle, pronto a grandi misteri e già tutto dimentico di questi vegliardi. Ritrova al suo punto di partenza il sogno, da dove è uscito. Ma ora il sogno, alla luce del surrealismo, si schiarisce e assume il suo reale significato. Anche André Breton, se appunta in quel periodo i suoi sogni, questi qui per la prima volta da quando il mondo è mondo conservano nella narrazione il carattere di sogno. Avviene che l’uomo che li raccoglie ha assuefatto la sua memoria a rapporti differenti rispetto alle povere realtà di quanti vegliano. Anche Robert Desnos impara a sognare senza dormire. Arriva a raccontare i propri sogni, a volontà. Sogni, sogni, sogni, il terreno dei sogni si allarga a ogni passo. Sogni, sogni, sogni, il sole blu dei sogni alla fine fa arretrare le bestie dagli occhi di acciaio verso le loro tane. Sogni, sogni, sogni sulle labbra dell’amore, sulle cifre della felicità, sui singhiozzi dell’attenzione, sui segnali della speranza, nei cantieri dove un popolo si rassegna accanto ai picconi. Sogni, sogni, sogni, tutto non è che sogno dove il vento vagabonda e i cani che abbaiano escono sulle strade. Oh grande Sogno, al mattino pallido degli edifici, non abbandonare più, attratto dai primi sofismi dell’aurora, questi cornicioni di gesso dove, affacciandoti, mescoli i tuoi tratti puri e labili all’immobilità miracolosa delle Statue! Allontana questi chiarori intollerabili, questi sanguinamenti del cielo che schizzano ormai da troppo tempo sui miei occhi. Una tua pantofola è tra i miei capelli, genio dal viso fumoso, tenebra splendente avvolta nel mio respiro. Impadronisciti del resto della mia vita, impadronisciti di tutte le vite, una  marea che sale alla schiuma di fiori. Dei presagi al di sopra dei giri, delle visioni nel fondo di stagni d’inchiostro, nella polvere del café, delle migrazioni di uccelli sulla lateralità degli indovini, dei cuori consultati da dita insanguinate, dei rumori annunciano - i tempi si dispiegano dai drappeggi - il tuo regno e il tuo ciclone, adorabile sirena, impareggiabile clown delle caverne, oh sogno addossato al corallo, colore delle cadute, odore del vento! 1924: sotto questo numero che richiama un fascino e trascina dietro di sé una vendemmia di pesci-lune, sotto questo numero ornato di catastrofi, strane stelle tra i suoi capelli, il contagio del sogno si spande per i quartieri e le campagne. Grandi esempi si innalzano dai campi puri. Chi è quest’uomo ai bordi dei miti e del mare, tutto nella neve e nel silenzio? Un altro chiuso per tutti vive nella sua roulotte con un esercito di domestici. Un altro, che apriva a malapena gli occhi su questo mondo, è morto davanti alla polizia e a suo padre, mentre la vettura passava sotto i muri di una prigione; e questa donna, questa donna che aveva scritto sul muro di un café: “È meglio pulire i bicchieri che gli spari di pistola” . Un altro, che ha fatto in Cina tutto questo tempo, tra due sogni che hanno il suono del sale? Un altro, un altro: voi avete dipinto la Notte ed era la Notte stessa. E voi il cielo: ed era tutto lo smeraldo del destino. Un altro sogno, ancora un altro sogno: il deserto sopra le città, le tapparelle tutte uguali e i passi ovattati della vita, si potrebbe uccidere per molto meno. È per molto meno che questo qui si uccide: una pipa di un terribile romanticismo, un arredo come li amiamo noi e un bel cronometro d’oro sul tavolo. E quel grande qua non si vergogna delle sue piccole canzoni impossibili? Non ha mai immaginato che una vita alla fine si potesse organizzare. Quale vantaggio ne ha potuto trarre nella sua piccola clinica in scatola quest’altro che ha messo una mano fredda sui sentimenti dell’uomo e sui puri rapporti familiari? Saint-Pol Roux, Raymond Roussel, Philippe Daudet, Germaine Berton, Saint-John Perse, Pablo Picasso, Georges de Chirico, Pierre Reverdy, Jacques Vaché, Léon-Paul Fargue, Sigmund Freud, i vostri ritratti sono appesi alle pareti della camera del sogno, voi siete i Presidenti della Repubblica del sogno.

Ed ora ecco i sognatori.


C’è una luce surrealista: quella che nell’ora in cui le città si infiammano cade sulla vetrina salmone delle calze di seta; quella che divampa nei negozi della Bénédictine e la sua sorella pallida nella perla dei depositi di acqua minerale; quella che schiarisce in sottofondo l’ufficio blu dei viaggi nei campi di battaglia, place Vendôme; quella che rimane fino a tardi avenue de l’Opéra da Barclay, quando le cravatte si tramutano in fantasmi; la luce delle lampade portatili sugli assassinati e sull’amore. C’è una luce surrealista negli occhi di tutte le donne. Si è appena demolito sul boulevard de la Madeleine un gran pezzo di realismo e per questa crepa potete scorgere un po’ del paesaggio che prosegue anche nei lavori del Moulin Rouge, zona Véron, nelle demolizioni delle fortificazioni parigine, nei campi di statue delle Tuileries, dai Gobelins infiammando la notte della parola SCUSA in lettere fosforescenti, nelle volte della metro dove scorrazzano i cavalli d’oro del cioccolato Poulain, nelle miniere di diamanti dove i truffatori si espongono ad avide laparotomie, nelle solfatare dove muoiono i cagnolini. Migliore del grande sole che lui detesta, Georges Limbour affronta questo giorno dall’aldilà. Non si è riusciti a romperlo dall’alto della scala da cui la folla lo gettò nelle notti di Magonza, poiché aveva orrore delle croci e delle bandiere, della pompa trionfante della guerra. A tutti i crocicchi André Masson dirige gli invii delle colombe: i bei coltelli che avrà visto dappertutto sono pronti alla fine a essere afferrati. Se le case di Parigi sono delle montagne è perché sono riflesse nel monocolo di Max Morise: ad Argent (Cher) non ha insozzato il grande crocifisso della stazione? Paul Éluard, io l’ho visto calpestato da agenti e macchinisti su un piano e tra lampadine rotte, erano trenta contro questo sussulto di stelle. Poco più tardi io l’ho visto ai piedi dello champagne in un paese di serpentine. Poi è entrato nell’ombra della terra, dove le eclissi morali sono i lampadari di un ballo sconfinato per l’oceano, poi è tornato, vi guarda. Delteil? È questo giovane quello che Francis Jammes ha supplicato in nome dei suoi capelli bianchi, questo giovane carnivoro che passa le sue giornate nei boschi di Meudon con immagini cruente. Man Ray, che ha domato i più grandi occhi del mondo, sogna a suo modo con dei porta-coltelli e delle saliere; dà un senso alla luce ed ecco che anche lei inizia a parlare. Suzanne, siete mora o bionda? Lei cambia col vento e potete crederlo: l’acqua è uguale all’uomo. Chi è questo prigioniero di una così grande trappola? I segnali che Antonin Artaud fa da lontano hanno una misteriosa corrispondenza nel mio cuore. Mathias Lubeck, non è mica una cosa seria, non vi state per arruolare nell’esercito coloniale? Dice di vergognarsi di non essersi tatuato, Jacques Baron, sulla sua nave, ha appena incontrato delle belle donne bianche: ti ricordi, mio caro amico, di una sera in cui ti ho lasciato vicino a Barbès, c’erano tanti ambulanti, allora non pensavi ai mari orientali, avevi fatto un gran colpo di testa verso l’estate. André Breton, eccone uno del quale non posso dir nulla se chiudo gli occhi, lo ritrovo a Moret, sul Loing, in tutto il polverio della strada d’alzaia. Per lungo tempo Philippe Soupault è stato riconosciuto dai suoi capelli crespi, lui che parlava agli impagliatori di sedie, che rideva in un modo travolgente verso mezzodì. Denise, Denise: nella stradina dove ci si ferma, il café di colori canta sempre meravigliosamente quando passate voi e ci si uccide sempre nel canale, nella via Lunga, dappertutto dove portate la vostra ombra pura e i vostri occhi chiari. Jacques-André Boiffard si rifiuta di tagliare le sue basette nere, con dolcezza. Porta un berretto di velluto. Cerca di sistemarsi ma non vuole un lavoro: un avviso per tutti. La magia non ha assolutamente segreti per Roger Vitrac, che prepara un Teatro dell’Incendio, in cui si muore come in un bosco. Prepara anche il ripristino del culto dell’Assenzio, di cui ha rovesciato i cucchiaini a griglia. Jean Carrive, il più giovane surrealista conosciuto, è notevole soprattutto per un magnifico senso della rivolta: si alza sull’avvenire con una provvista di bestemmie. Pierre Picon estende il suo protettorato sulla Spagna. Francis Gérard, avventato come nessuno, si è appena gettato nell’acqua dell’esistenza: non è che conoscereste per lui una donna estremamente bella che a vent’anni faccia di lui un uomo perduto per sempre? Simone arriva dal paese dei colibrì, questi piccoli lampi di musica, assomiglia al tempo dei tigli. Steso dagli spettatori al Petit Casino e nei vari café della capitale, Robert Desnos ha tentato più volte la morte per una parola: Parole, dice, siete dei miti e simili ai mirti delle morti? I terremoti, è dove Max Ernst, pittore di cataclismi come altri di battaglie, si ritrova con la massima comodità e il massimo piacere: è curioso che la terra non stia sempre a tremare. René Crevel non si è mai accorto che questo pianeta è fissato solidamente per mezzo di meridiani e paralleli; è più sonnambulo che ogni altro. Grandi collere, una risoluzione feroce fanno di Pierre Naville un corpicino divertente: lo crederei volentieri destinato a una sorta di attentato contro la vita, vorrei conoscere la chiromanzia per sapere se sarà molto infelice. Marcel Noll, mio vecchio Noll: non tenterai di disertare, ma di chi sei lo schiavo se non dei fantasmi in fondo ai tuoi occhi? La gente, vedi, è un poco di polvere. Charles Baron, immagina, ha lasciato questo hotel in cui vi frequentavate. Mi dà delle notizie di suo fratello. Non ha proprio perso i favori di questa donna mirabile alla quale presento una volta di più i miei omaggi. Ma colui che è capace di tutto, colui che è sul piano eroico nel modo più semplice, l’uomo che non si è mai premunito contro l’esistenza, colui che si incontra al Soleil Levant, colui che sfida il buon senso a ogni respiro, è Benjamin Péret, dalle belle cravatte, un gran poeta come non se ne fanno più, Benjamin Péret che tiene al guinzaglio una balena, o forse un passerotto. Che peccato che Georges Malkine sia oggi a Nizza! Ormai non ho più alcuna idea dell’eleganza ed è molto del mistero di questa città mal illuminata chi è partito per la Costa Azzurra. Maxime Alexandre? Crede che lo scordi. Non ci si scorda della disperazione. Le ultime notizie che ho di Renée Gauthier sono cattive. Mi trattengono dal parlare di questa giovane tutta divisa tra una sorta di passione e l’ingenuità che niente potrebbe farle perdere. Mio caro Savinio, abbandonate Roma e venite qui, spingendo davanti a voi il carretto dove sono ammucchiati i corpi dei Niobidi. Tutto questo mondo che ho censito vi attende. Senza dubbio stanno per accadere delle grandi cose. Abbiamo appeso una donna al soffitto di una camera vuota, dove arrivano ogni giorno degli uomini tormentati, portatori di pesanti segreti. È così che abbiamo conosciuto Georges Bessières, come un pugno. Lavoriamo a un compito enigmatico per noi stessi, davanti a un tomo di Fantômas fissato al muro con delle forchette. I visitatori, nati in climi lontani o alle nostre porte, contribuiscono all’elaborazione di questa formidabile macchina per uccidere chi è per il compimento di ciò che non è. Al 15 di rue de Grenelle abbiamo aperto un riparo romanzesco per le idee inclassificabili e per le rivolte perseguite. Tutta la speranza che resta ancora in questo universo disperato sta per volgere verso il nostro ridicolo chiosco i suoi ultimi sguardi deliranti: “Si tratta di ottenere una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo”.


In un romanzo di Marcel Allain, quando il misterioso Cuore-Rosso, dopo mille peripezie e la sete e i lunghi pericoli, i loro miraggi, arriva in fondo al Celeste Impero a questa tomba favolosa dove spera di trovare l’anello che conferisce il potere, che vede, mentre gli uccelli della notte spiccano il volo sulla polverosa lapide del sepolcro profanato? L’orma ben marcata di un tallone Wood-Milne. E, senza dubbio anche questa volta, miei amici, molliamo il bottino per l’ombra, senza dubbio interrogheremo l’abisso invano. Ma è l’ombra, ma è il silenzio che inseguiamo da tutta l’eternità, ma è questo grande fallimento che si perpetua. Come mai non si legge su nessun monumento delle nostre città: A Fetonte, l’umanità riconoscente? Che importa. Ha avuto il gusto della vertigine ed è caduto.

Se di colpo considero il corso della mia vita, se dimentico questa formazione dello spirito, ed è facile, se domino un poco il senso di questa vita che mi attraversa, che mi sfugge, di colpo… Che significa ciò? Di colpo. Non mi aspetto nulla dal mondo: non aspetto nulla di nulla. Il senso di questa vita, ah così ma: che m’importa di una scoperta e quanto è applicabile alla sua conoscenza? Conoscere! La pietra nel precipizio non conosce che la propria accelerazione, non la conosce neppure, a dire il vero. Bisogna vedere l’uomo in preda ai suoi specchi, che esclama con l’accento patetico del suo teatro: divenire cosa? Come se avesse la scelta. Grande inutilità, mare increspato, io sono la tua scogliera erosa. Sali, sali, bambino delle lune, o marea: io sono colui che si consuma e contro cui il vento infuria. Una semplice abitudine, quando la notte è troppo densa, con i suoi fantasmi, i suoi terrori, se tendo le mani ai luccichii dei fari che ruotano da lontano. Se unisco con questo tratto mentale che disegna le note costellazioni, è semplice abitudine. Se canto a bassa voce. Se vado, se vengo. Se penso. Se solamente apro questi occhi che non hanno visto nulla. Ma tra tutte le arie che talvolta canticchio, ce n’è una tuttavia che oggi mi dà una libera illusione di primavera e quasi un’illusione dell’autentica libertà. Quest’aria io l’ho persa e poi la ritrovo. Libero, libero: è l’ora in cui la catena dai chiari anelli del vento spicca il volo per le moire del cielo, è l’ora in cui la palla diviene schiava delle caviglie, in cui le manette sono dei gioielli. Accade che ai muri della cella il recluso incide un’iscrizione che fa sulla pietra un rumore d’ali. Accade che scolpisce al di sopra della parte fissata il simbolo impennato degli amori della terra. C’è che sogna, e io sogno, travolto, io sogno. Io sogno di un lungo sogno in cui ciascuno sarebbe capace di sognare. Non so quel che sarà di questa nuova impresa di sogni. Io sogno ai bordi del mondo della notte. Che volevate dirmi dunque, uomini in lontananza, gridando con la mano a megafono, ridendo dei gesti del dormiente? Ai bordi della notte e del delitto, ai bordi del delitto e dell’amore. Oh Riviere dell’irreale, i vostri casinò aprono le loro sale da gioco senza distinzione di età a quanti vogliono perdere! È tempo, credetemi, che non si vinca più.


Chi c’è qui? Ah, molto bene: fate entrare l’infinito.





giovedì 5 giugno 2025

U. Saba, "Ritratto della mia bambina"


La mia bambina con la palla in mano,

con gli occhi grandi color del cielo

e dell’estiva vesticciola: «Babbo

– mi disse – voglio uscire oggi con te».

Ed io pensavo: Di tante parvenze

che s’ammirano al mondo, io ben so a quali

posso la mia bambina assomigliare.

Certo alla schiuma, alla marina schiuma

che sull’onde biancheggia, a quella scia

ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;

anche alle nubi, insensibili nubi

che si fanno e disfanno in chiaro cielo;

e ad altre cose leggere e vaganti.



R. Magritte, "Il ritorno", 1940


sabato 1 marzo 2025

Una Giraffa nell'armadio/7: CHE CE NE FACCIAMO DEL SURREALISMO OGGI

E se scrivessi che oggi il Surrealismo è più attuale che mai?

S. W. Hayter, Parturition, 1939

Sarebbe facile limitarsi a dire che il Surrealismo, dopo lo scioglimento del movimento il 4 ottobre 1969, sia sopravvissuto nella società contemporanea. In effetti molti aspetti della nostra quotidianità sono stati influenzati da questa corrente: la fotografia, innumerevoli esperienze artistiche, per non parlare poi degli ambiti del marketing e della pubblicità. Alcuni aspetti sono stati dunque integrati nel sistema in maniera lampante e questo sarebbe sufficiente a concludere che le idee di Breton e dei suoi compagni alla fine si siano imposte. Non basterebbe però a spiegare come, seppure il movimento storico sia terminato, il Surrealismo, letto come linea di pensiero e filosofia, possa sopravvivere tutt’oggi, in modo effettivo, vivace se non imprescindibile.


Ci dà tanto materiale per discutere di questo tema il libretto di Milan Napravnik “La magia del surrealismo”, edito da Mimesis nel 2018. L’autore, un artista ceco morto nel 2017 a Colonia, nei testi raccolti in queste 90 pagine approfondisce varie facce del movimento oggi, che provo a raccogliere (e in parte integrare) qui in tre punti.




  1. IL SURREALISMO È MAGIA

Non so quanti sono i gradini della scala che mi porta a lavoro, anche se ci vado quotidianamente, né il numero dei capelli di mia moglie, che pure amo. Non conosco neppure l’estensione esatta della pelle del mio stesso corpo, ma questa è una condizione costante dell’uomo, che percepisce la realtà solo in modo selettivo e generico, eludendo e generalizzando. In caso contrario infatti anche solo respirare consisterebbe in un’azione insostenibile, se bisognasse tenere conto di tutti i muscoli coinvolti, della massa d’aria inspirata ed espirata, della composizione della stessa.

L’essere umano dunque non può avvertire il mondo se non attraverso una selezione del reale: “l’interpretazione della realtà è storicamente e soggettivamente determinata e dunque per molti aspetti imperfetta, imprecisa e soprattutto preconcetta”; sembra una banalità ribadirlo, ma la conoscenza e la scienza del genere umano non possono che essere limitate e “il reale razionale (così com’è distinto dall’uomo) è solo un’illusione, un’autosuggestione che ci permette di dare un senso al nostro mondo”.

Risulta dunque necessario integrare questa selezione con quanto ne è escluso e la funzione irrazionale della nostra psiche non può dunque essere considerata solo come una fase precorritrice, alla stregua del modello freudiano. Non è un caso infatti che in tutte le civiltà di origine non europea e in tutte quelle primitive sia marcato il ruolo delle forze medianiche e sia sviluppata una varietà di tecniche psicotrope, come l’ipnosi, la danza monotona, la litania, i movimenti circolari della testa, l’uso di sostanze psicoattive, la padronanza sulla respirazione. In sintesi, è l’inconscio che ci apre le porte alla conoscenza integrale della realtà.

La poesia, che apre a dimensioni interiori differenti, non è un’abilità tecnica o una composizione formale definita, ma deve essere intesa “come un’esperienza personale, individuale, che ha luogo su un livello magico, che tocca l’essenza dell’esistenza di ogni persona. Oggi, ahinoi, alla maggior parte delle persone della civiltà contemporanea le elementari esperienze poetiche risultano completamente sconosciute, ma “se diciamo che la poesia o un dipinto è poetico, che ha in sé la poesia, non significa null’altro che ci offre l’esperienza poetica inculcatavi dall’inconscio di un poeta o di un pittore. In realtà, [i testi creativi] sono semplicemente traslocatori, più o meno efficaci, di esperienze magiche registrate dal pittore o dal poeta capace, in circostanze favorevoli, di trasferire queste esperienze in senso analogico nell'eventuale lettore”.

L’artista è colui che è capace di andare oltre la superficie della percepito, come secondo il modello simbolista, e a creare esperienze più aderenti alla realtà rispetto alla nostra stessa realtà, a esprimere quel lampo innestato dal suo inconscio. E cosa è la magia se non la capacità di entrare in autentica relazione con le forze della natura, di riconoscere quel lampo? Ecco dimostrato come la poesia sia un principio magico e, ancor più appropriatamente, la poesia surrealista.


G. De Chirico, Il cervello del bambino, 1914

  1. IL SURREALISMO NON È ARTE

Il Surrealismo non è un gruppo d’arte, poiché, siccome contesta il sistema della realtà razionale, pragmatica, materialista, non può farne parte. Tanto meno può fare parte del mondo dell’arte, che in questa società scade inevitabilmente nella mercificazione.

Inoltre, corollario a questo principio, il surrealista non deve cercare il plauso della critica del sistema, anzi non deve nemmeno essere integrato al sistema.

Sebbene poi ilSsurrealismo autentico utilizzi immagini o testi poetici, il collegamento con l’arte o la letteratura è soltanto apparente, poiché il movimento non è interessato tanto a problemi o valori estetici, inseparabili dalla vera arte e dalla letteratura. Non è interessato principalmente nemmeno “alla bellezza né alla bruttezza, alla modernità né all’obsolescenza, alla natura inventiva, speculativa o all’esibizionismo, all’originalità o allo stile. Ciò a cui è interessato è la ricerca e la promozione della libertà creativa dello spirito”. Ciò che rende un’opera surrealista arte o meno, non deriva dall’autenticità dell’esperienza, né dalla sua esteticità, quanto solamente dalla capacità di suggestionare e comunicare.



  1. IL SURREALISMO NON SOLO È ATTUALE MA È L’UNICA SOLUZIONE

Che il mondo umano, la società capitalista, la cultura consumistica debbano affrontare un cambiamento radicale penso sia un’evidenza lampante: non è questo il contesto di pace, di giustizia, di armonia e di libertà a cui il genere umano può mirare. Per questo ci si domanda come mai, in un secolo di presenza, forse il Surrealismo non abbia inciso sulla storia quanto si sarebbe voluto.

Il Surrealismo non ha mai affermato di essere capace, di per sé, di cambiare il mondo, ma è si è sempre trovato dalla parte del cambiamento, perché aveva già compreso, annunziato, condannato i punti insostenibili di questo sistema e se ne era sempre dichiarato estraneo, un tempo come ora. Contro il crudo materialismo, contro la dittatura, contro le convenzioni borghesi e le stereotipizzazioni della società di massa, contro le imposizioni di qualsivoglia genere, contro le discriminazioni, contro i totalitarismi, contro i privilegi della tradizione e contro le diseguaglianze. Il 1968 in Francia in fondo è frutto del pensiero surrealista calato nel contesto politico di quegli anni.

D’altronde, fin dalle sue prime espressioni, il Surrealismo è il regno dell’Immaginazione, ovvero della creazione pura dello spirito, perché non ha che questo strumento per poter modificare lo scenario mondiale e forse anche questo non è sufficiente. In ogni caso ci darà la possibilità della speranza e così potrà già offrire una nuova configurazione della coscienza umana, frammenti di un uomo nuovo. È l’aria di libertà che non può invecchiare, la ribellione che non può ingessarsi in abitudine: questo basta.


D. Rivera, I vasi comunicanti, 1938


domenica 2 febbraio 2025

veglia

La nuit est venue tout d'un coup comme une grande rosace de fleurs retournée sur nos têtes.
La notte è caduta di colpo sulle nostre teste come un grande rosone di fiori. 
(André Breton, "Poisson soluble")

lo scorrere della notte un manto 
disperato copre il corpo accorato
avvolge le gambe stringe le mani 
lo scorrere delle notti in cui il volto
svanisce il sonno in cui non piangere
il sonno che fascia freddo fatica
hai detto che non c’è bisogno
i minuti passano le lacrime si asciugano
altrove qualcun altro lo accetta
hai detto che non hai bisogno
nemmeno di una voce della speranza
di una luce soffocata e nuda
la notte scorre hai detto spiccia
e ti sei raggomitolata in quattro stracci
hai chiuso il pugno e hai abbracciato
il silenzio delle cose che non sono
lo scorrere delle notti cieche
poi hai aperta una mano hai baciato
un bottone scucito del pigiama
una finestra ha sbattuto infranta

R. Magritte, "L'empire des lumières", 1949


lunedì 27 gennaio 2025

Una Giraffa nell'armadio/6: P. ELUARD, "LO SPECCHIO DI UN ISTANTE"


Dissipa il giorno,

Mostra agli uomini le immagini svincolate dall'apparenza,

Toglie agli uomini la possibilità di distrarsi.

E' dura come la pietra,

La pietra informe,

La pietra del movimento e della vista,

E il suo bagliore è tale che tutte le armature, tutte le maschere ne vengono distorte.

Quel che la mano ha preso disdegna persino di prendere la forma della mano,

Quel che è stato inteso non esiste più,

L'uccello s'è confuso con il vento,

Il cielo con la sua verità,

L'uomo con la sua realtà.


P. Eluard, Lo specchio di un istante, da La capitale del dolore (1926)



Cosa vale un istante? Quanto ci facciamo illudere da un attimo? Eppure la nostra esistenza è scandita da cumuli di istanti inutili, posti bene in fila secondo un rigido ordine casuale. In un attimo voliamo e poi in un attimo ricadiamo a terra, in un istante sogniamo quel che un istante dopo i calcoli annichiliscono: questa è la serie dei nostri istanti umiliati, come innamorati cui non si presta fede.

Eppure Eluard scrive con lo scroscio dolce e profumato di un fiume di montagna. Eluard scrive con la materialità delicata delle nuvole della Castiglia. Eluard scrive con gli occhi fermamente aperti di chi sa sognare. Gli bastano infatti poche parole, una manciata di versi, per trasformare delle sillabe in sentimenti, le lettere in nuove realtà.

Così in questo testo l'istante, quell'attimo fuggitivo e fragile, assume i contorni duri della pietra, inflessibili di una rivelazione e rivoluzionari di un amore, una pietra dinamica che si muove e vede: qui il lettore trova una luce, forse fioca e confusa, ma una luce viva. No, l'attimo non è più un fantasma passeggero e privo di senso nella giornata distratta, ma, liberato dallo sguardo surrealista, diventa una certezza più perentoria della stessa realtà.

Ecco che anche in questo breve componimento emerge il procedimento del rovesciamento del reale tipico del Surrealismo, quanto più infatti un elemento appare certo e indubitabile, tanto più lo si mina alle basi, non attraverso un paradosso logico o un sillogismo, ma semplicemente attraverso la potenza illimitata dell'immaginazione: quel che è stato inteso non esiste più.

Questa presa di posizione non vuole essere una negazione del reale, ma esprime la consapevolezza che la nostra conoscenza è limitata, che al di là di quanto comprendiamo il mistero della vita è ancora più grande, ancora più potente, ancora più smisurato. Se riusciamo a intuirla, questa magia, questa corrispondenza senza risposte ci travolge. Questa è la confusione/unione tra uccello e vento, cielo e verità, tra l'uomo e la sua realtà. L'attimo diventa una verità ed è il resto, l'abitudine e la norma, la maschera e l'armatura, a perdere di ogni consistenza. 

Cosa vale un attimo? Quanto può valere lo sguardo di un uomo: questo è lo specchio di un istante, che fugge e che è fuggito, la pietra a fondamento della nostra esistenza.

Innamoriamoci ancora, vi prego, di questo istante.







venerdì 3 gennaio 2025

Una Giraffa nell'armadio/5: G. MANGANELLI, "CENTURIA"


Immaginate per un attimo cento eroi, ma senza un volto, oppure cento racconti, ma senza una storia, e percepirete la meraviglia un poco sbigottita che si prova leggendo Centuria (1979) di Giorgio Manganelli. Cento risposte rimaste senza una domanda. Un capolavoro nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento, un’opera tanto semplice quanto straordinaria, un unicum di originalità, in cui emerge anche tutta l’influenza del Surrealismo sull’autore.



In Italia in effetti il Surrealismo non ha conosciuto la diffusione di altri Paesi europei (Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, Repubblica Ceca) ed extraeuropei (Stati Uniti, Messico, Cile, Giappone), questo anche per ragioni politiche: il movimento si struttura nel 1924, quando in Italia Mussolini è già arrivato al governo, così la vicinanza alle idee marxiste/trockiste e la concorrenza artistica dell’avanguardia futurista limitarono il successo degli scritti di Breton e degli altri. Non è un caso che la prima traduzione del Manifesto surrealista sia avvenuta solo nel 1945, dopo la caduta del regime fascista. Anche dopo la guerra tuttavia la situazione non è mutata drasticamente: la visione politica del gruppo era invisa tanto allo schieramento democristiano quanto alla fazione del partito comunista, che era strettamente legata a Mosca. Questa situazione non solo ha impedito lo sviluppo di un vero e proprio gruppo surrealista italiano, ma non ha nemmeno fatto conoscere gli artisti e le opere principali del movimento: nella nostra penisola il Surrealismo è rimasto per anni, se non un bell’enigma lontano, una stravaganza approcciata in modo estremamente superficiale e solo negli ultimi decenni è in atto il tentativo di conoscerlo autenticamente.

Sebbene dunque la fortuna surrealista in Italia sia stata abbastanza avara, alcuni artisti e autori sono stati vicini al gruppo, come Giorgio De Chirico, esaltato in un primo tempo da Breton, il fratello Alberto Savinio, Arturo Schwarz. Altri, pur non avendo contatti diretti, ne hanno subito il fascino, come Bontempelli, Arbasino, Baj, Calvino, Echaurren e, appunto, Giorgio Manganelli (1922-1990) e hanno lasciato frutti maturi e interessanti, magari meno dogmatici ma vivamente sperimentali. Tra queste esperienze è necessario annoverare Centuria.


Giorgio Manganelli


Cosa è Centuria? Cento romanzi, anzi cento riassunti di cento romanzi, con cento protagonisti, sempre senza nome e senza volto, che approfondiscono cento situazioni paradossali. Spiegare il titolo in fondo dunque non è molto arduo.

Manganelli non ha dato titolo né un ordine logico a questi brani, che sono denominati solo da un numero; inoltre hanno tutti la stessa estensione, ciascuno infatti ha la lunghezza di un foglio esatto alla macchina da scrivere, per emulare il mito del sonetto, quella struttura rigida e vessatoria con cui l’immaginazione può misurarsi. Una prova di come la libertà più sfrenata possa essere esercitata solo in rapporto a un contesto fisso e inflessibile.

Leggere ognuno di questi brani è quindi entrare in una storia nuova, in un libro nuovo, in un universo diverso: fantasmi e corpi celesti, assassini e innamorati, sfere e sovrani che si susseguono in modo scriteriato.

Immagino dunque sono”: è in quest’ottica surrealista, parafrasata dalle parole di Enrico Baj, che Giorgio Manganelli immagina, crea, racconta. Da una parte volendo dire qualcosa di sé, dall’altra senza voler dire troppo di nulla. Questa caratteristica di una storia in nuce, lasciata costantemente vaga e indefinita, precisa la scelta dell’autore: permettere che la narrazione sia ripresa, continuata, riempita dal lettore. L’imperativo che Manganelli ci lascia è quello di completare la caratterizzazione, i dettagli, il finale di queste trame appena abbozzate e assurde. È un fatto tutt’altro che scontato, ma quasi miracoloso l’evidenza che immaginazione generi immaginazione, incondizionatamente, e allo stesso modo la fantasia dell’autore stimola quella del lettore, che non può sottrarsi al gioco.

Così, in questi orizzonti rarefatti, tra questi profili fumosi, emergono dei sentimenti, universali e umani, sentimenti mai così concreti e chiari.


E. Baj, Tre personaggi

La conoscenza del Surrealismo in Italia fu dunque sicuramente esigua e circoscritta a qualche autore più celebre, ma non mancano esempi di una corrente surrealista italiana, capolavori e testi inesauribili: leggere per credere.

Per questo motivo riporto alcuni tra questi racconti, da cui si può appurare non solo la varietà dei temi, ma anche un linguaggio preciso, talvolta asciutto, tramite il quale i pensieri, il mondo interiore, materializzandosi, diventano il vero protagonista del testo.

In particolar modo consiglio il racconto 39, una spiegazione folle ma mai così verosimile del fenomeno della guerra, poi il 43, che descrive in maniera ingenua questo animale fantastico, innocuo, la cui innocenza è, come spesso accade, l’arma più devastante, o il 75, marcato da tratti estremamente dolci. Non mancano storie d’amore, come il 37, ma, se devo palesare il capolavoro per me più cristallino, vi segnalo il testo 77, una sorta di bagatella capace però di raccontare in cosa consista il genere umano.


Alla fine rimane anche una certa sensazione di solletico: se fosse possibile rendere questi riassunti dei romanzi in carne ed ossa, collegare i puntini e colorare gli spazi, quanti altri libri di valore potrebbero essere generati? La risposta è semplice: probabilmente infiniti, almeno cento. Cento risposte rimaste senza domanda.



E. Baj, Il generale Amin e una delle sue mogli


14.


Il signore col cappotto e il collo di pelliccia, accuratamente sbarbato, uscì di casa esattamente alle nove meno dodici, giacché alle nove e trenta aveva un appuntamento con la donna che aveva deciso di chiedere in moglie. Uomo lievemente superato dagli eventi, casto, sobrio, taciturno, non incolto ma di una cultura deliberatamente non aggiornata, il signore col cappotto aveva deciso di percorrere a piedi la strada che lo separava dal luogo dell’appuntamento e impiegare il suo tempo a meditare, giacché era convinto che, quale che fosse stata la risposta, la sua vita era prossima a un drammatico cambiamento. Naturalmente apprensivo, riteneva probabile una risposta dilatoria e si sarebbe rallegrato di un «no» detto con cortesia; non osava pensare ad un «sì» immediato. Aveva calcolato un percorso di quaranta minuti, inclusivo dell’acquisto di un quotidiano, oggetto che, della sua pochezza. Poiché tre erano le risposte possibili, aveva deciso di dedicare trenta minuti complessivi al «no» ed alla «dilazione», otto al «sì», e due minuti al giornale. All’ottavo minuto di strada, mentre tentava di persuadersi che un «no» non avrebbe precluso una vita utile ed onesta, udì la prima, violenta esplosione. In realtà, da tempo nel suo paese si discuteva dell’opportunità di una guerra civile, ma il signore del cappotto, pensoso del proprio avvenire, non vi aveva fatto caso. Anche allora non capì. Due minuti dopo, vedendo esplodere il Ministero dell’Istruzione, ebbe dei sospetti; e i carri armati finirono di persuaderlo. Egli aveva qualche opinione politica, ma un poco esangue. In quel momento, egli pensava alla sua possibile sposa con virile apprensione. Le cose accaddero rapidamente: alle nove e sette il Primo Ministro venne fisicamente defenestrato, tre minuti dopo il Presidente veniva rincalcato nella canna fumaria e il Re entrava nel palazzo degli avi; era un Re vecchio ed aveva fretta; le fucilazioni cominciarono subito. Il signore col cappotto venne fucilato alle nove e trentotto, contro il muretto di una chiesa in falso gotico. Lo fucilarono perché aveva ancora in mano il giornale acquistato al mattino presto, quando il Paese era ancora repubblicano. Non gli dispiacque morire; ma lo irritarono lievemente quei due minuti che avrebbe potuto dedicare al «sì».



21.


Ad ogni risveglio, il mattino - un risveglio riluttante e che si potrebbe definire pigro - il signore inizia con un rapido inventario del mondo. Da tempo si è accorto che ogni volta si sveglia in un punto diverso del cosmo, anche se la Terra che è suo abitacolo non appare estrinsecamente mutata. Da bambino, egli si era persuaso che, nei moti attraverso lo spazio, la Terra passa talora nei pressi o addirittura all’interno dell’inferno, mentre non le è mai concesso di passare all’interno del paradiso, perché tale esperienza renderebbe impossibile, superflua, irrisoria, ogni ulteriore prosecuzione del mondo. Quindi il paradiso deve evitare la Terra ad ogni costo, per non ferire i piani accurati e incomprensibili della creazione. Anche ora - uomo adulto, che guida un’automobile di sua proprietà - qualcosa di quella ipotesi infantile non l’ha lasciato. Ora egli la ha lievemente laicizzata e la domanda che si pone è più metaforica e apparentemente distaccata: egli sa che, durante il sonno, tutto il mondo si è spostato - come dimostrano i sogni - e che ogni mattino i pezzi del mondo, siano o meno impegnati in una partita, sono diversamente collocati. Egli non pretendi di sapere quel che significa questo spostamento, ma sa che talora avverte la presenza di abissi, tentazioni di strapiombi o rare, lunghe pianure per le quali vorrebbe rotolare - gli accade di pensare a se stesso come a un tondo corpo celeste - à lungo; talora ha una confusa impressione di erbe, altre volte una sensazione eccitante, ma non di rado sgradevole, di essere illuminato da più soli, non sempre reciprocamente amici. Altre volte ascolta nitido un fragore di onde, che possono essere temposta o accalmìa; altre volte ancora è la sua propria posizione nel mondo che gli si svela brutalmente: ad esempio, quando mascelle crudeli e attente lo stringono alla nuca, come deve essere accaduto innumere volte ai suoi antenati sfiniti tra i denti di belve di cui non ha mai visto il volto. Da tempo ha imparato che non ci si sveglia mai nella propria stanza: ha, anzi concluso che non esiste stanza, che pareti e lenzuola sono un’illusione, una finta; sa di essere sospeso nel vuoto, di essere, lui come ogni altro, il centro del mondo, dal quale si dipartono infiniti infiniti. Sa che non potrebbe reggere a tanto orrore e che la stanza, e perfino l’abisso e l’inferno, sono invenzioni intese a difenderlo.



34.


Costui è veramente un abitudinario. Veste sempre, da sempre, quale ora lo vedete, un completo grigio: ha tre vestiti identici, che indossa a turno. Ha tre paia di guanti scuri, tre paia di cappelli. Si sveglia alle sette meno cinque, si alza alle sette. Custodiscono l’esattezza del suo risveglio tre sveglie sincronizzate, e ricondotte all’ora di Greenwich; altre tre sveglie sono costantemente affidate alle cure di un unico orologiaio, del tutto consapevole della gravità del suo compito. Alle otto è pronto per uscire. Un cammino di trenta minuti lo separa dal suo posto di lavoro: ha rinunciato a servirsi di mezzi pubblici, a causa della loro imprevedibile inesattezza. Alle cinque e quarantacinque è nuovamente a casa. Riposa trenta minuti. Non legge né libri né giornali, che egli considera depositi di inesattezze. Mangia sobriamente; è astemio. Cammina per un’ora, in casa o attorno casa, a seconda del tempo. Detesta il tempo, e lo considera un segno della fondamentale inesattezza dell’universo. Rifiuta vento o pioggia. Alle dieci e trenta si corica. A quel punto, una fiera lotta si scatena in quest’uomo fermo e pacato; infatti, egli detesta i sogni. Talora sogna di morire, di venire ucciso, e se ne rallegra, giacché, suppone che venga in quel modo punito e distrutto l’io dei sogni. Si allena a dimenticare i sogni, a persuadersi che non esistono. Tuttavia, appunto il fatto che non esistono, ma hanno forma, lo turba profondamente. Anche il non essere è capace di disordine. Nel suo quotidiano tragitto egli esegue quello che chiama un “esercizio spirituale”; esso consiste nella limitazione del mondo ad un itinerario angusto, nel cui ambito sempre meno possa accadere. Questo “esercizio” in realtà nasconde un disegno più sottile, pervicace e sapiente. Egli vuole fare del suo itinerario,della sua casa un luogo unico, centrale all’ordine del mondo. Vuole che il suo passo sia il pendolo esatto del mondo. Egli è convinto che il mondo non sia in grado di tener testa alla sua esattezza. Pertanto, egli è giunto a coltivare un’ambizione anche più temeraria. Un giorno egli eseguirà un gesto inesatto, incompatibile col mondo; e questo, egli sa, verrà lacerato e disperso come un vecchio giornale in un giorno di vento. Sul Trono di Dio governerà sul Nulla epurato di sogni l’impiegato di concetto vestito di grigio.



37. 


La donna che egli aspettava non è venuta all’appuntamento. Tuttavia egli - l’uomo vestito in modo più giovanile di quanto non gli si addica - non se ne sente offeso; anzi, non ne soffre affatto. Se fosse più attento, dovrebbe confessare di provarne un lieve ma indubitabile piacere. Egli può fare varie ipotesi sui motivi per cui la donna non è stata puntuale al convegno. Mentre sonda le ipotesi, egli  non si allontana dal punto designato dell’appuntamento, ma solo un poco se ne apparta, come se fosse un covo in cui qualcosa di lei, o lei per intero, sta acquattata. Forse se n’è dimenticata. Poiché egli ama pensare se stesso come persona inconsistente, si compiace di tale ipotesi, che significherebbe che lei pure l’ha identificato come esiguo, casuale, e dunque tale che il dimenticarlo è il solo modo per ricordarlo. Potrebbe aver deciso in un momento di bizzarria, forse di collera, giacché è una donna impetuosa; ed allora gli avrebbe riconosciuto la sua funzione di molestia, una minuscola piaga, certo non un affanno del cuore, ma qualcosa che lei non può allontanare dalla propria vita, o almeno da talune giornate. Può aver sbagliato l’ora dell’appuntamento, e in quel momento egli s’accorge di non aver chiaro, lui appunto, quale fosse quell’ora. Ma non se ne turba, giacché gli pare naturale che l’ora sia imprecisa, giacché egli si considera perpetuamente in appuntamento con la donna che non è giunta. Non potrebbe essere un errore di luogo? Sorride. Vuol forse dire che lei si ripara, si rifugia in un qualche luogo segreto, e che l’assenza è allora paura, fuga, o anche gioco, richiamo? O che l’appuntamento era dovunque, per cui nessuno in realtà ha potuto mancare l’altro, né per il luogo né per il tempo? Dunque, egli dovrebbe concludere che in realtà l’appuntamento è stato non solo rispettato, ma ubbidito con assoluta precisione, anzi è stato interpretato, capito, consumato. Il lieve piacere si sta trasformando in un inizio di gioia. Decide anzi che l’appuntamento è stato talmente vissuto, che ora non può dare nulla di più alto e totale di se medesimo. Bruscamente, volta la schiena al luogo dell’incontro, e sussurra teneramente “Addio”, alla donna che si appresta ad incontrare.



39.


Un’ombra corre veloce tra i reticolati, le trincee, i profili notturni delle armi; il portaordini ha fretta, lo guida una furia felice, una impazienza senza tregua. Ha in mano un plico, e deve consegnarlo all’ufficiale che comanda quel ridotto, luogo di molti morti, di molti fragori e lamenti e imprecazioni. Passa il portaordini agile tra i grandi meati della lunga guerra. Ecco, ha raggiunto il comandante: un uomo taciturno, attento ai rumori notturni, ai frastuoni lontani, ai rapidi fuochi inafferrabili. Il portaordini saluta, il comandante — un uomo non più giovane, il volto rugoso — scioglie il plico, lo apre, legge. Lo sguardo rilegge, attento. “Che vuol dire?” stranamente chiede al portaordini, poiché il messaggio è in chiaro, e chiare e comuni sono le parole con cui è stato scritto. “La guerra è finita, comandante” conferma il portaordini. Guarda l’orologio al polso: “È finita da tre minuti”. Il comandante alza il volto; e con infinito stupore il portaordini vede su quel volto qualcosa di incomprensibile: un principio di orrore, di sgomento, di furore. Il comandante trema, trema d’ira, di rancore. di disperazione. “Vattene, carogna” ordina al portaordini: questi non capisce, e il comandante si alza e lo colpisce con la mano, in faccia. “Via, o ti uccido”. Il portaordini fugge, gli occhi pieni di lacrime, di paura, quasi lo sgomento del comandante l’avesse contagiato. Dunque, pensa il comandante, la guerra è finita. Si torna alla morte naturale. Si accenderanno le luci. Dalla posizione nemica sente venire delle voci: qualcuno grida, piange, canta. Qualcuno accende una lanterna. La guerra è dovunque, non ce più alcuna traccia di guerra, le armi sono definitivamente inutili. Quante volte hanno mirato per ucciderlo, quegli uomini che cantano? Quanti uomini ha ucciso e fatto uccidere, nella legittimità della guerra? Perché la guerra legittima la morte violenta. E ora? Il comandante ha il volto coperto di lacrime Non è vero: bisogna far capire subito, una volta per sempre, che la guerra non può finire. Lentamente. faticosamente, solleva l’arma e prende la mira di quegli uomini che cantano, ridono, si abbracciano, i nemici pacificati. Senza esitazione, comincia a sparare.



43. 


L’animale giglio non è, propriamente, un animale; anzi, mite, e anche blando; l’animale giglio non corre, anzi, per l’esattezza, può trascorrere anni nella più assoluta e minuziosa immobilità; l’animale giglio non si nutre di carne di esseri vivi, e tuttavia si comporta come se li avesse già mangiati; egli ha, si dice, una sorta di memoria del gusto, nella quale è collocata una traccia di carne di animale ucciso e divorato: mentre, non avendo bocca né denti, per via di quella sua blandizie, l’animale giglio non potrebbe assolutamente mangiare carni di esseri uccisi. Malgrado queste sue caratteristiche, l’animale giglio viene studiato e classificato come feroce, veloce, carnivoro. Assicurano i tecnici che nessun altro modo di descriverlo è adeguato, sebbene essi riconoscano che l’animale giglio non mostra nessuno dei comportamenti tipici dell’animale feroce, veloce, carnivoro. La verità è che tutti, sia gli studiosi che indagano l’animale giglio nelle taciturne diapositive, o per sentito dire, spaurite e golose chiacchiere di caffè, sia gli indigeni, sanno che l’animale giglio va ucciso e occorre ucciderlo perché, appunto, è blando, statico, astinente. Tutte le sue qualità, che in teoria potrebbero farne un animale domestico innocuo e compagnevole, gli conferiscono una potenza temibile perché insinuante, sebbene sia difficile dire in che modo codesto animale si insinui. Insomma, esso è feroce non sebbene ma perché blando, e chiunque coltivi la sua blandizie ne morrà. Dunque, che l’animale giglio sia paradossalmente feroce, pare certo; e dunque ne viene che bisogna ucciderlo. Ma questo appunto è difficile. Esso non pare avere cuore da trafiggere, né capo da mozzare, né sangue da effondere. Chiunque abbia cercato di ucciderlo con frecce, anche rese temibili con fuochi resinosi - colpirlo è agevole perché, s’è detto, è immobile - lo ha attraversato senza recargli alcun danno; avvicinarglisi per dar di forbici nel suo corpo - ma che corpo è mai? - è gran pericolo, giacché da presso l’animale giglio può esercitare la sua terribile blandizie. In realtà, un modo certo per ucciderlo non si conosce in modo assoluto; ma gli indigeni suggeriscono queste guise: lanciare frecce prendendo la mira dalla parte opposta; reclutare cento giovani che, a turno, sorridano, immoti, all’animale giglio; infine, ed è il miglior metodo accertato, ucciderlo in sogno, in questo modo: si prende il sogno in cui è l’animale giglio, lo si arrotola e infine straccia, senza gesti  d’ira; ma l’animale giglio di rado si lascia sognare.



52. 


Il drago, ovviamente, è stato ucciso dal cavaliere. Solo un cavaliere può uccidere un drago - ad esempio, non un militare di carriera, né un campione sportivo. Ci sono cavalieri che si vantano di aver ucciso più draghi: mentono. Non è nel disegno del mondo consentire l’uccisione di più di un drago ad un cavaliere; e a molti anche questo è negato; taluno, anzi, viene dal drago abbattuto, prima che questi cada sotto i colpi di altro, predestinato cavaliere. Il drago giace trafitto, dissanguato e tuttavia esangue, in mezzo a bisce, rane, conchiglie; codesti animali non mostrano la parentela del drago, ma al contrario la sua estraneità. Infatti, il punto che non deve sfuggire è che il drago è eterogeneo rispetto al luogo della propria morte, rispetto agli animali, al cielo, e soprattutto rispetto al cavaliere. Dei draghi non si molto, ma in genere i cavalieri ignorano anche il poco che se ne conosce. Che esistano regioni in cui i draghi dimorano, regioni lontane e forse tecnicamente inaccessibili, molti credono, e pare verosimile. Da quelle regioni si allontanano; viaggiano sempre soli: nessuno ha mai saputo di una coppia di draghi, una famiglia, due draghi amici. Il drago si dirige verso il luogo della propria uccisione. Che si sappia, questo è il modo di morire consentito ai draghi. Il drago si dirige verso le mura della città, in cui tuttavia non penetra mai; non ha interesse per i villani, ma cerca cavalieri, giacché solo da uno di questi otterrà morte. Talora il drago si apparta in una grotta, se ne fa ricetto, accumula sassi sulla soglia. Il drago emette dalla bocca fuoco: che tiene luogo di favella. Egli ha verosimilmente molte cose da dire, ma la lunga solitudine l'ha reso disavvezzo, e l'intima fatica esce in lingue di fiamma. Colpisce, in tutta la vicenda del cavaliere e del drago, l’assoluta inintelligenza del cavaliere nei confronti del drago. Non ne avverte le distanze, la solitudine, la grandezza immane e deforme, né decifra i segni del fuoco. Ignora le fatiche che il drago ha voluto affrontare per giungere puntuale ad un terribile appuntamento. Il cavaliere ignora di essere egli stesso giunto ad un appuntamento. Se, fermo sul suo bel cavallo, poggiasse la lancia al suolo, reggendola pianamente, senza ira e paura, il drago, vedendo delusa la sua brama di morte, forse inizierebbe il colloquio.



65. 


Il cavaliere che ha ucciso il drago - un bell’uomo, di gran portamento, snello e pulito, sebbene mortale - su lega la gran massa di temibile carne alla sella e si mette in strada verso la città. È orgoglioso dell’impresa, sebbene si renda oscuramente conto che la sua lancia è stata guidata dal destino e dalla stupidità in parti eguali; passa per villaggi, e la gente, abituata al terrore del mostro, si rinchiude in casa e barrica le porte; il cavaliere ride, e pensa che il re in città lo abbraccerà davanti a tutto il suo popolo e, almeno per la forma, gli offrirà la figlia in sposa. Il cavaliere, trascinando il corpo, i denti, gli occhi semichiusi del drago, passa accanto ad un cimitero, una chiesa, una solitaria casa; ma nessuno si affaccia a rendergli omaggio: neppure i morti, che si limitano ad un mormorio che potrebbe anche essere di riprovazione; perché il prete non esce a benedire l’uccisore? Perché gli abitanti della casa non escono a baciargli le staffe? Forse hanno paura di lui, l’uomo che li ha liberati dal mostruoso mostro? Il cavaliere è corrucciato, e tanto più orgoglioso della sua impresa. Eccolo varcare la porta della città, inoltrarsi per la via grande che conduce alla reggia; la strada è affollata, ma mentre egli avanza, sente che qualcosa di strano sta accadendo: la gente ammutolisce, si ritrae, volge gli occhi ed egli sa che non lo fanno per non scorgere l’orribile mostro, ma per guardare lui, il cavaliere. Non può non accorgersi che un senso di ribrezzo lo sta avvolgendo; i cittadini hanno non paura, ma schifo di lui. Il cavaliere è esterrefatto, indignato, affranto. Una finestra si chiude seccamente, ode o crede di udire rapidi insulti. Ma non ha ucciso il drago? Non erano tutti d’accordo che il drago andava ucciso? Non era fitta, la storia, di paladini che uccidevano draghi e ne ricavavano donne e palazzi e motociclette giapponesi? Ha forse sbagliato drago? No, nessuno aveva mai parlato di due draghi, i draghi non sono due, in nessun caso. Vorrebbe provare ira, ma è molto malinconico; non capisce. Si rende conto che non è il caso che vada dal re, ed eccolo far sosta ad un crocicchio, mentre la gente si allontana. Che fare? Il cavaliere scende da cavallo, e si volge a guardare il drago, brutto e calmo. Per la prima volta ne scruta il corpo, la faccia, la dura pelle, gli sproni irti; che sentimenti prova, il cavaliere? Per la prima volta è sbigottito e sente la sua sorte di uccisore del drago come risibile e turpe; e, confusamente, si rende conto che vivrà il resto della sua vita in contemplazione di quell’incorruttibile cadavere.



75.


Una donna ha partorito una sfera; si tratta di un globo dal diametro di venti centimetri; il parto è stato facile, senza complicazioni. Si ignora se la donna sia o meno sposata; un marito avrebbe supposto una relazione col demonio, e l'avrebbe cacciata o forse uccisa a martellate. Dunque non ha marito. Si dice sia vergine. In ogni caso è una buona madre: è molto affezionata alla sfera. Poiché la sfera non ha bocca, la madre la alimenta immergendola in una minuscola vasca colma del suo latte; la vaschetta è decorata di fiori. La sfera è del tutto liscia. Non ha occhi, né organi per muoversi, e tuttavia rotola per la stanza, sale le scale, rimbalzando leggermente, con molta grazia. È fatta di una materia più rigida della carne, ma non completamente anelastica. Nei suoi movimenti rivela una volontà decisa, qualcosa che si potrebbe chiamare chiarezza di idee. La madre la lava ogni giorno, la nutre. In realtà, non è mai sporca. Apparentemente, non dorme, sebbene non disturbi mai la madre: non emette alcun suono. Tuttavia la madre crede di sapere che, in certi momenti, la sfera è ansiosa di essere toccata dalla madre; le pare che in quei momenti la sua superficie sia più morbida. La gente evita la donna che ha partorito la sfera, ma la donna non se ne accorge. Tutto il giorno, tutta la notte, la sua vita ruota attorno alla perfezione patetica della sfera. Sa che quella sfera, per quanto prodigiosa, è estremamente giovane. Lentamente, la vede crescere. Dopo tre mesi, il suo diametro è cresciuto di quasi cinque centimetri; talora la superficie, di regola grigia, assume un lieve colorito rosato. La madre non insegna nulla alla sfera, ma cerca di imparare da lei: ne segue i movimenti, cerca di capire se “vuol dire” qualcosa. La sua impressione è che la sfera non voglia dire nulla, e che tuttavia le appartenga. La madre sa che la sfera non resterà sempre nella sua casa; ma le interessa questo appunto, di essere stata coinvolta in una vicenda insieme sgomentevole e del tutto tranquilla. Quando le giornate sono calde e assolate, ella prende in braccio la sfera e cammina attorno alla casa; talora si spinge fino ad un giardino, ed ha l’impressione che la gente si stia abituando a lei, alla sua sfera. Le piace farla rotolare sulle aiuole, inseguirla e catturarla, con un gesto di spaventata passione. La madre ama la sfera, e si domanda se mai nessuna donna sia stata madre quanto lei.



77.


In questa città, ciascuno possiede qualcosa che è indispensabile ad un altro, e di cui il detentore non sa che fare, o che ignora addirittura d’avere; tutti sanno di essere privati di qualcosa che è del tutto indispensabile, ma nessuno sa chi lo detenga, e nemmeno se chi lo detiene lo sappia, o nel caso che lo sappia, se sia disposto ad offrirlo. Si aggiunga che non capita mai, a quel che si sa, che due persone abbiano ciò che è indispensabile all’altro, per cui, nel caso che si riconoscessero, la situazione sarebbe relativamente agevole, riducendosi ad uno scambio paritario. Dunque, chi detiene qualcosa che è indispensabile ad altri, non avrebbe alcuna convenienza a cederlo, a meno che questo altro non fosse in grado di trovargli ciò che è indispensabile a lui. Ne deriva che chiunque desideri veramente ciò che gli è indispensabile, non deve tanto, o non deve solo cercare colui che detiene ciò che gli è indispensabile, ma anche, o in primo luogo, colui che presume detenga ciò che è indispensabile a colui che detiene ciò che è indispensabile al questuante. In questo modo, si è creato nella città un sistema di accattonaggio, inchiesta, ricerca, investigazione, questua,  che coinvolge tutti, ma in modo indiretto. È lecita la domanda: in qual modo possa il questuante sapere che mai sia indispensabile a colui che detiene ciò che è indispensabile al questuante. In realtà, non ci sono regole sicure, ma si è formato un poco alla volta un modo di indovinare, di dedurre che segue all’incirca un percorso come segue: qualcosa mi è indispensabile, ma non è indispensabile a colui che lo detiene; ora, se ciò che è indispensabile a me a lui è inutile, ciò significa che ha bisogno di una cosa che deve essere estranea a ciò che mi è indispensabile, ed anche estranea a tutto ciò che io detengo, ma in qualche modo confinante con l’uno o con l’altro. Dunque, analizzando se medesimo, taluni credono di poter capire che cosa, almeno all’incirca, sia indispensabile all’altro. Ma a questo punto, occorre rintracciare la persona che detiene quella cosa indispensabile, la quale, a sua volta, ha convenienza a cederla solo se gli viene fornita la cosa che a lui è indispensabile. Sembrerebbe un problema insolubile, ma poiché tratta di cose indispensabili, nessuno può rinunciare a cercare una qualche soluzione, e la ricerca della cosa indispensabile finisce per diventare a sua volta indispensabile, e non è del tutto chiaro se, in quella città, se ne desidera la conclusione.